I DUE OCCIDENTI

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Come si sta allungando la distanza tra Europa e Stati Uniti

Con la parola “Occidente” facciamo riferimento, alternativamente, a una storia millenaria, a un sistema di  valori politici, a uno stile di vita e a un’alleanza economica, strategica e militare. Non proprio alternativamente, in verità: quasi sempre il richiamo di uno di questi profili dà per implicito o esplicito uno degli altri o tutti, come se fossero nel loro insieme i volti di una comunità di destino. Per tale ragione, i discorsi sull’Occidente assumono sempre un tono emotivamente molto carico e ideologico: in positivo (identificando l’Occidente con la civiltà) e in negativo (risolvendolo nel colonialismo, nello sfruttamento economico e nelle pratiche di dominio), e quindi inevitabilmente perdendo in entrambi i casi il senso della misura nel giudizio (tra i più recenti esempi, il libro di Federico Rampini, Grazie Occidente!). Tale è lo spessore ideologico del termine “Occidente” che esso vive ormai in piena autosufficienza, senza necessità di appoggiarsi per antitesi a “Oriente”.  Della civiltà occidentale sappiamo che c’è, e a partire da Spencer in poi sappiamo che è un ciclo che tramonta e tramonterà, e però che mostra una certa resilienza nell’acconciarsi a questa scomparsa.

In questa sede mi focalizzerò sull’aspetto che nella stretta contingenza più ci preme, e cioè sulla saldezza o meno dell’alleanza militare occidentale, che il fronte russo-ucraino ogni giorno più mette alla prova; e dato che, come dicevo, la parola Occidente è refrattaria a farsi chiudere nella nicchia di un unico campo discorsivo, sarò costretto a mettere al centro la visione del diritto internazionale e del sistema di valori politici di cui si fa portatore l’Occidente. Ma ciò che su cui intendo riflettere è: possiamo davvero declinare Occidente al singolare? O grattando sotto la superficie esistono due Occidenti distinti? (a tutti sarà chiaro che la dualità riguarderebbe da un lato l’Europa, salvo quella dell’Est, e gli Stati Uniti dall’altro. In questo caso non vale la pena di prendere in conto due paesi come Australia e Canada, per altro tra loro abissalmente diversi, che pure condividono con Europa e ancor più con gli Stati Uniti forme di stile di vita, oltre che posizioni geopolitiche).

Una felice e articolata riflessione su tale dualità sono andato a ripescarla in un libro che avevo letto 21 anni fa: I due Occidenti, scritto da Gret Haller. L’autrice, già presidente del Parlamento svizzero, aveva svolto funzione di mediatrice per i diritti umani in Bosnia-Erzegovina. Con tale ruolo si trovò al centro del processo di costruzione identitaria, costituzionale e amministrativa della repubblica che era stata posta sotto la tutela internazionale, dentro una rete di giuristi, mediatori culturali e negoziatori politici che lavoravano gomito a gomito per trovare l’intesa su una serie di punti. Ebbe così modo di riflettere sui diversi atteggiamenti delle delegazioni europee e americane, e si sforzò di ricondurle al contesto storico e culturale che aveva forgiato approcci profondamente diversi tra le due sponde atlantiche riguardo alla libertà, allo stato, ai diritti, alla comunità.

Le principali sono così riassumibili:

  1. La libertà per gli americani nasce da un atto individuale, l’emigrazione del singolo che abbandona dietro di sé la forma statale europea. La libertà europea nasce dall’esperienza di un atto collettivo, ovvero l’assunzione di sovranità da parte del popolo al posto del monarca. La struttura di base, in America, dunque rimane più individuale che collettiva, e refrattaria ai vincoli. Semmai è l’individuo a scegliersi un collettivo più ristretto, una comunità volontaria di tipo associativo. Già Tocqueville poté in effetti impressionarsi per il fiorire di fattive associazioni negli Stati Uniti, non poche delle quali hanno nel nucleo di base un’impronta religiosa che esigono una professione di fede.
  2. Molti europei in rotta verso l’America scampavano alle persecuzioni religiose. Volevano dunque edificare una nazione che garantisse la massima tolleranza di fede e che però che alla religione restituisse quella signoria che in Europa era stata posposta allo stato. Rispetto allo spazio concesso alla religione, gli Stati Uniti sono quasi fondamentalisti: il dollaro porta impressa la frase “In God We Trust”, la nazione si definisce ufficialmente “under God”, i presidenti americani concludono qualunque intervento pubblico con la formula “Dio benedica l’America”, i dibattiti sui diritti civili non riescono a staccarsi dalla pressione religiosa che ne vorrebbe compressi alcuni, in quanto contrari alla natura. Inutile ricordare che gli Stati Uniti sono l’unico paese, al di fuori di alcuni islamici e della Turchia, nel quale il creazionismo cerca di mettere il bavaglio didattico all’insegnamento dell’evoluzionismo.
  3. Se nell’idea americana di nazione è così flebile il peso di un vincolo verso lo stato, figurarsi se lo stato stesso può accettare di rimanere sottoposto alla volontà degli organismi internazionali! Per questo gli Stati Uniti si sfilano da ogni trattato che non sia bilaterale e regolano le questioni internazionali secondo criteri pragmatici e rivedibili (amando dire che “gli europei creano le strutture e gli americani risolvono i problemi”). 
  4. Siccome dell’idea fondatrice non faceva parte il principio della sottomissione alla volontà del popolo (attraverso lo stato) e di più contava la tutela delle minoranze (minoranze di opinione: quelle etniche non erano proprio prese in considerazione) dalla tirannia della maggioranza, la costituzione consegnò ai giudici il compito di promuovere e tutelare il riconoscimento dei diritti individuali. Storicamente, ci si è sempre fidati più della Corte Suprema che del popolo. E in questo senso la politica che ruota intorno ai diritti civili si svolge assai più davanti ai tribunali che in parlamento.

Il peso storico delle origini nazionali si è dunque trascinato nei secoli. Se rileggiamo questi concetti, l’attuale scostamento degli Stati Uniti dall’Europa riguardo allo stato, all’individuo, alle obbligazioni etiche e anche all’ordine internazionale non appaiono né nuovi né sorprendenti. Eppure, a confronto con venti anni, fa, non vi sfuggirà che c’è un importante cambiamento in corso: lo sforzo di Trump di ridimensionare il peso delle corti giudiziarie (salvo quella Suprema, finché ricalca pedissequamente le linee politiche presidenziali) e di esaltare invece la volontà popolare come fonte del potere che per delega viene trasmessa al leader, che può farne uso quasi assolutistico. Condotta a fondo, sarebbe una rottura che farebbe saltare gli equilibri del sistema americano in modo violento, spingendolo verso una forma di autoritarismo che presenta alcuni connotati del fascismo. E la storia insegna come, per flusso naturale, l’aggressività nazionalistica so sposti dall’interno verso l’esterno. Sarebbe un errore circoscrivere quest’azione alla sola persona di Trump. Dopo la disgregazione del partito repubblicano, intorno a lui si è creata una rete di gruppi, come NatCon, e di personaggi influenti come Peter Thiel o Curtis Yarvin, dichiaratamente neoreazionari e antidemocratici, oltre che legati all’evangelismo e al cattolicesimo radicale (in verità, con parecchi contenuti eretici rispetto alla dottrina cattolica). 

Gli Occidenti, dunque, continuano a essere due e la loro distanza si allarga. Quel legame ideale con la libertà e la democrazia, a dispetto delle non lievi sfumature differenziali e dei numerosi fallimenti applicativi, era ciò che creava nonostante tutto una percezione di unità, e certo non sono la Russia o la Cina gli interlocutori interessati a coltivare la materia. Finito quello, di sintonico, resterà solo qualche reciproca influenza culturale; quanto alla precarietà di convergenza sul piano geopolitico ci siamo già immersi fino al collo.  Camminare sulle proprie gambe, per l’Europa, più che come atto di coraggio si prospetta quale stretta necessità. Una sfida certo problematica sotto tanti aspetti, e che però non potrà essere vinta mediante la retorica enunciazione di valori ma solo dalla concreta distribuzione dei benefici (economici e non) che questi possono portare agli individui e alle comunità.  





Come si sta allungando la distanza tra Europa e Stati Uniti

Con la parola “Occidente” facciamo riferimento, alternativamente, a una storia millenaria, a un sistema di 

valori politici, a uno stile di vita e a un’alleanza economica, strategica e militare. Non proprio alternativamente, in verità: quasi sempre il richiamo di uno di questi profili dà per implicito o esplicito uno degli altri o tutti, come se fossero nel loro insieme i volti di una comunità di destino. Per tale ragione, i discorsi sull’Occidente assumono sempre un tono emotivamente molto carico e ideologico: in positivo (identificando l’Occidente con la civiltà) e in negativo (risolvendolo nel colonialismo, nello sfruttamento economico e nelle pratiche di dominio), e quindi inevitabilmente perdendo in entrambi i casi il senso della misura nel giudizio (tra i più recenti esempi, il libro di Federico Rampini, Grazie Occidente!). Tale è lo spessore ideologico del termine “Occidente” che esso vive ormai in piena autosufficienza, senza necessità di appoggiarsi per antitesi a “Oriente”.  Della civiltà occidentale sappiamo che c’è, e a partire da Spencer in poi sappiamo che è un ciclo che tramonta e tramonterà, e però che mostra una certa resilienza nell’acconciarsi a questa scomparsa.

In questa sede mi focalizzerò sull’aspetto che nella stretta contingenza più ci preme, e cioè sulla saldezza o meno dell’alleanza militare occidentale, che il fronte russo-ucraino ogni giorno più mette alla prova; e dato che, come dicevo, la parola Occidente è refrattaria a farsi chiudere nella nicchia di un unico campo discorsivo, sarò costretto a mettere al centro la visione del diritto internazionale e del sistema di valori politici di cui si fa portatore l’Occidente. Ma ciò che su cui intendo riflettere è: possiamo davvero declinare Occidente al singolare? O grattando sotto la superficie esistono due Occidenti distinti? (a tutti sarà chiaro che la dualità riguarderebbe da un lato l’Europa, salvo quella dell’Est, e gli Stati Uniti dall’altro. In questo caso non vale la pena di prendere in conto due paesi come Australia e Canada, per altro tra loro abissalmente diversi, che pure condividono con Europa e ancor più con gli Stati Uniti forme di stile di vita, oltre che posizioni geopolitiche).

Una felice e articolata riflessione su tale dualità sono andato a ripescarla in un libro che avevo letto 21 anni fa: I due Occidenti, scritto da Gret Haller. L’autrice, già presidente del Parlamento svizzero, aveva svolto funzione di mediatrice per i diritti umani in Bosnia-Erzegovina. Con tale ruolo si trovò al centro del processo di costruzione identitaria, costituzionale e amministrativa della repubblica che era stata posta sotto la tutela internazionale, dentro una rete di giuristi, mediatori culturali e negoziatori politici che lavoravano gomito a gomito per trovare l’intesa su una serie di punti. Ebbe così modo di riflettere sui diversi atteggiamenti delle delegazioni europee e americane, e si sforzò di ricondurle al contesto storico e culturale che aveva forgiato approcci profondamente diversi tra le due sponde atlantiche riguardo alla libertà, allo stato, ai diritti, alla comunità.

Le principali sono così riassumibili:

  1. La libertà per gli americani nasce da un atto individuale, l’emigrazione del singolo che abbandona dietro di sé la forma statale europea. La libertà europea nasce dall’esperienza di un atto collettivo, ovvero l’assunzione di sovranità da parte del popolo al posto del monarca. La struttura di base, in America, dunque rimane più individuale che collettiva, e refrattaria ai vincoli. Semmai è l’individuo a scegliersi un collettivo più ristretto, una comunità volontaria di tipo associativo. Già Tocqueville poté in effetti impressionarsi per il fiorire di fattive associazioni negli Stati Uniti, non poche delle quali hanno nel nucleo di base un’impronta religiosa che esigono una professione di fede.
  2. Molti europei in rotta verso l’America scampavano alle persecuzioni religiose. Volevano dunque edificare una nazione che garantisse la massima tolleranza di fede e che però che alla religione restituisse quella signoria che in Europa era stata posposta allo stato. Rispetto allo spazio concesso alla religione, gli Stati Uniti sono quasi fondamentalisti: il dollaro porta impressa la frase “In God We Trust”, la nazione si definisce ufficialmente “under God”, i presidenti americani concludono qualunque intervento pubblico con la formula “Dio benedica l’America”, i dibattiti sui diritti civili non riescono a staccarsi dalla pressione religiosa che ne vorrebbe compressi alcuni, in quanto contrari alla natura. Inutile ricordare che gli Stati Uniti sono l’unico paese, al di fuori di alcuni islamici e della Turchia, nel quale il creazionismo cerca di mettere il bavaglio didattico all’insegnamento dell’evoluzionismo.
  3. Se nell’idea americana di nazione è così flebile il peso di un vincolo verso lo stato, figurarsi se lo stato stesso può accettare di rimanere sottoposto alla volontà degli organismi internazionali! Per questo gli Stati Uniti si sfilano da ogni trattato che non sia bilaterale e regolano le questioni internazionali secondo criteri pragmatici e rivedibili (amando dire che “gli europei creano le strutture e gli americani risolvono i problemi”). 
  4. Siccome dell’idea fondatrice non faceva parte il principio della sottomissione alla volontà del popolo (attraverso lo stato) e di più contava la tutela delle minoranze (minoranze di opinione: quelle etniche non erano proprio prese in considerazione) dalla tirannia della maggioranza, la costituzione consegnò ai giudici il compito di promuovere e tutelare il riconoscimento dei diritti individuali. Storicamente, ci si è sempre fidati più della Corte Suprema che del popolo. E in questo senso la politica che ruota intorno ai diritti civili si svolge assai più davanti ai tribunali che in parlamento.

Il peso storico delle origini nazionali si è dunque trascinato nei secoli. Se rileggiamo questi concetti, l’attuale scostamento degli Stati Uniti dall’Europa riguardo allo stato, all’individuo, alle obbligazioni etiche e anche all’ordine internazionale non appaiono né nuovi né sorprendenti. Eppure, a confronto con venti anni, fa, non vi sfuggirà che c’è un importante cambiamento in corso: lo sforzo di Trump di ridimensionare il peso delle corti giudiziarie (salvo quella Suprema, finché ricalca pedissequamente le linee politiche presidenziali) e di esaltare invece la volontà popolare come fonte del potere che per delega viene trasmessa al leader, che può farne uso quasi assolutistico. Condotta a fondo, sarebbe una rottura che farebbe saltare gli equilibri del sistema americano in modo violento, spingendolo verso una forma di autoritarismo che presenta alcuni connotati del fascismo. E la storia insegna come, per flusso naturale, l’aggressività nazionalistica so sposti dall’interno verso l’esterno. Sarebbe un errore circoscrivere quest’azione alla sola persona di Trump. Dopo la disgregazione del partito repubblicano, intorno a lui si è creata una rete di gruppi, come NatCon, e di personaggi influenti come Peter Thiel o Curtis Yarvin, dichiaratamente neoreazionari e antidemocratici, oltre che legati all’evangelismo e al cattolicesimo radicale (in verità, con parecchi contenuti eretici rispetto alla dottrina cattolica). 

Gli Occidenti, dunque, continuano a essere due e la loro distanza si allarga. Quel legame ideale con la libertà e la democrazia, a dispetto delle non lievi sfumature differenziali e dei numerosi fallimenti applicativi, era ciò che creava nonostante tutto una percezione di unità, e certo non sono la Russia o la Cina gli interlocutori interessati a coltivare la materia. Finito quello, di sintonico, resterà solo qualche reciproca influenza culturale; quanto alla precarietà di convergenza sul piano geopolitico ci siamo già immersi fino al collo.  Camminare sulle proprie gambe, per l’Europa, più che come atto di coraggio si prospetta quale stretta necessità. Una sfida certo problematica sotto tanti aspetti, e che però non potrà essere vinta mediante la retorica enunciazione di valori ma solo dalla concreta distribuzione dei benefici (economici e non) che questi possono portare agli individui e alle comunità.  





Di |2025-10-03T18:02:04+01:0012 Settembre 2025|3, Limite di velocità|

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