LO SPETTATORE PASSIVO DALLA TV AL DEVICE

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A partire dagli anni Sessanta una lunga tradizione filosofica ha indicato il fruitore della tv come uno spettatore passivo. Il termine è ora quasi scomparso dal dibattito pubblico, insieme a quello di “spettatore”. Oggi si parla prevalentemente di utenti che passano buona parte del tempo libero davanti a un device. Possiamo davvero dire che il passaggio ha rappresentato un miglioramento, sotto il profilo dell’essere attivo?

Benché ci fosse una certa concordia, specie dentro il pensiero di sinistra, nel qualificare passivo lo spettatore della tv, il senso di tale espressione veniva ricostruito in modi divergenti, in qualche caso cumulativi. Si teorizzava perciò che lo spettatore fosse passivo:

  • Perché subisce un flusso unilaterale di comunicazione. Ci sono altri che gli parlano, con i quali non può interagire.
  • Per via della sedentarietà. Invece di svolgere un’attività all’aria aperta si stravacca sul divano per ore con gli occhi fissi sullo schermo.
  • Perché la tv gli induce uno stato di suggestione che lo rende facilmente manipolabile e cedevole ai suoi messaggi, come quelli pubblicitari.
  • Perché lo rende più insensibile e meno empatico: in particolare la continua esposizione della sofferenza (nella fiction, nei telegiornali) lo assuefà e gliela rende banale e distante anche quando vi si trova a stretto contatto.
  • Perché la tv lo risucchia nella dimensione privata e lo sottrae alle interazioni collettive, staccandolo progressivamente dalla dimensione politica attiva del militante.

Ognuna di queste critiche aveva la sua parte di verità ma pure uno sfondo più sfaccettato: finivano così per essere troppo pedanti. Gli anni Sessanta e Settanta in cui la televisione imperava furono anni di grande mobilitazione politica. Gli amanti dello sport, che non perdevano una partita di calcio (una però, fra le tante disponibili: essendo trasmesse tutte insieme non potevano guardarle nello stesso momento) o un incontro di Panatta, moltiplicarono le partite amatoriali e le iscrizioni ai corsi di tennis. Non era esatto che a un programma televisivo fossero estranee le capacità cognitive, e molti acquisirono competenze culturali di base grazie alla tv. Abbandonare i bambini davanti allo schermo non era pedagogicamente corretto, e però l’immaginario attivato dai programmi per i più piccoli e i ragazzi non era affatto scadente. La condotta dei politici sullo schermo, fosse pure con parziale ipocrisia, veicolava il senso di controllo e dignità di chi è immesso in una funzione: non cancellava il conflitto sociale ma contribuiva a mitigarlo. La tv era un’occasione di riunione familiare che teneva vivo un punto di contatto (di incontro o di scontro) tra le generazioni.

Gli anni Ottanta segnarono l’avvento delle televisioni private a fianco di quella pubblica. La loro impostazione era la stessa: si trattava cioè di tv generaliste, che affrontavano nell’arco della giornata tutti i campi, dal giornalismo allo spettacolo, dalla politica allo sport, dalla fiction alla divulgazione culturale. L’impronta commerciale, però era più presente e spalmata in mezzo e all’interno dei programmi: il rilevamento dell’audience non era un astratto indice di successo ma un concreto misuratore dell’appetibilità pubblicitaria di un certo spazio televisivo. Il profilo manipolatorio si accentuò e anche l’interesse a catturare lo spettatore indebolendone l’attenzione critica (e quindi una marcata preferenza per la sua passività).

La vera svolta nel consumo televisivo si ebbe tuttavia con i canali on-demand: grazie ai canali tematici, lo spettatore non era più costretto ad assoggettarsi ai ritmi gerarchici delle programmazioni ma poteva in ogni momento comporre un suo personale palinsesto, del tutto rispondente ai propri interessi. Questo cambiamento (benché non c’entrasse quasi nulla con i cinque filoni critici che ho esposto sopra) cancellò progressivamente il concetto di passività dello spettatore: si esaltava invece il ruolo attivo della scelta. Rimaneva però la questione del flusso unilaterale. A questo provvide la rivoluzione della tecnologia digitale. Grazie alla Rete, sui device, il soggetto poteva uscire dal suo cantuccio di spettatore, interagire bilateralmente con gli emittenti e addirittura proporsi lui stesso come produttore di contenuti. Il concetto di passività venne definitivamente ritirato nel cassetto. Anche per la televisione, che diventava di fatto a sua volta un device, sia perché i programmi possono essere fruiti in alternativa sui device veri e propri; sia perché i suoi programmi vengono rimbalzati (riprodotti, commentati, anticipati, integrati) su canali accessibili sui device. Il palinsesto diventa del tutto obsoleto: non solo (questo sin dagli anni Ottanta) è possibile registrare un programma e vederlo secondo comodo ma se ne può alterare la struttura formale e trasformare una serie composta da quattordici puntate in un unico binge watching di quattordici ore.

Il device non si limita a sostituire lo schermo televisivo: data la sua polifunzionalità allarga la presa della sfera mediatica sulla realtà sociale. Prima si poteva eccepire (a torto o ragione) che la tv rubasse troppo tempo alle relazioni personali, perché le due attività si svolgevano su binari totalmente alternativi. Oggi l’interazione con gli amici può somigliare a una trasmissione televisiva o radiofonica. Proprio qualche giorno fa parlavo con una persona, rivestente anche un ruolo pubblico: si lamentava del fatto che le persone la sommergessero di vocali, e che una le avesse detto, rispetto ai lunghi e numerosi lasciati: “te li puoi ascoltare la sera, quando non hai nulla da fare!”, mostrando dunque di immaginarli come una specie di podcast (non è in effetti casuale che l’uso dei vocali segua la diffusione dei podcast). Dato che con il device facciamo di tutto, dovremmo considerarlo fisiologicamente come un propulsore di situazioni in cui le persone sono attive. In realtà, molte modalità di fruizione televisiva sono traslate nella fruizione del device; il device ha rinforzato alcune caratteristiche che venivano considerato indizio di passività o ne ha introdotte di nuove; infine, il device moltiplica il numero delle cose che “guardiamo”, dando a quel tipo di postura psico-fisica che abbiamo appreso davanti alla televisione un raggio d’azione molto più vasto.

Il device presenta due elementi dirompenti di novità rispetto alla televisione. Il primo è che il device convoca. La televisione, al pari della radio, non ha la possibilità di fare un fischio al suo fruitore. Il device invece, nel suo stato normale, mediante le notifiche avverte l’utente che è il momento di usarlo. Il secondo è che il device è portatile. Il device quindi mediatizza qualunque ambiente esterno in cui ci troviamo: cioè lo valuta come elemento al quale integrarsi per produrre una trasmissione mediatica che altri guarderanno oppure come luogo estraneo al quale sottrarsi immergendoci nel flusso mediatico che ci propone. Il device seguendoci ovunque, contrariamente alla televisione, ci impone un disciplinamento mediaticizzante.

Alle origini del web (e qualche entusiasta continua anche oggi) si insisteva con entusiasmo sulla figura del prosumer, del consumatore che è anche produttore di un servizio e si puntava l’accento sul fatto che grazie alle Rete tutti possiamo produrre contenuti. Il problema è che quanto più tutti produciamo contenuti tanto più decresceranno le possibilità che siano guardati, dato il crescere dei contenuti concorrenti. Bisogna dunque risalire al vero significato della mediatizzazione digitale: essa non consiste affatto nella valorizzazione delle possibilità per il singolo di produrre un contenuto che venga guardato. Coincide invece con la produzione costante di contenuti in modo da aumentare la possibilità che chiunque sia stabilmente risucchiato nella loro massa (detto più semplice: le imprese che producono il flusso mediatico sui device non lo fanno per aiutare chi produce contenuti ma per incatenare allo schermo chi li guarda, confidando che tale attrazione diventi automatica, e dunque passiva).

Da questo momento dell’articolo rinuncerò alla parola “utente”, perché, per buona parte del tempo libero, chi si serve del device può essere al massimo grado definito spettatore, cioè come qualcuno che “guarda”. Guarda, anche in situazioni dove prima faceva una cosa diversa, per esempio leggere. I testi vengono guardati, come se fossero immagini, e per questo ne sfugge sovente la comprensione, o ci si stufa presto se ci sono delle subordinate (concetti più complessi, del tutto refrattari a essere guardati), o ancora si va in brodo di giuggiole o si litiga perché si sono “guardati” una parola, un segno, un’immagine (un politico, un gatto, un luogo)  che scatenano una reazione riflessa (e quindi passiva) di schifo, litigiosità o adorazione Quando d’altronde, l’individuo guarda davvero (dei film, una partita ecc.) è poi uno spettatore nel senso tradizionale (e se era passivo prima, è passivo anche – e a maggior ragione – adesso.

Tra i pattern/format che il device ha ricevuto in eredità dalla televisione c’è quello che potremmo chiamare il bello della diretta. La diretta, in termini estetici, non ha nulla di intrinsecamente bello, specie se non è una performance preparata: assistere a un concerto dal vivo è bello perché, per quanto l’artista si possa abbandonare al flusso dell’improvvisazione, l’evento è stato accortamente pensato e strutturato. Il bello della diretta, al contrario, esprime l’apprezzamento per ciò che di trascurato, accidentale, involontario sfugge al controllo e alla coordinazione: in quanto (presuntivamente) spontaneo riscatta il suo impaccio, il suo impiccio, la sua asimmetria. Non è bello ciò che piace ma piace che è in diretta. Il device, grazie alla potenzialmente universale copertura mediatica che la tecnologia digitale garantisce, ha amplificato il culto della diretta, sollecitando chi assiste a un evento (quanto più sghembo e disordinato, sia esteticamente che moralmente, perché così esprime l’irregolarità tipica del bello della diretta) a collocarlo senza indugio in rete (e la ragione per cui le piattaforme non lo filtrano prima per assicurarsi che il contenuto sia congruo è che se il concetto di “diretta” venisse limato il video perderebbe il suo appeal). La speranza di intercettare una diretta tiene vigile un’attenzione passiva, essenzialmente un istinto a tenere sotto controllo il dispositivo e rispondere ai suoi appelli.

Come dicevo, il sogno che chiunque potesse mettere in evidenza i propri contenuti si è infranto contro la sua stessa sostanza del “fatelo tutti, ora!”, così come naufragherebbe la possibilità di mangiare tutti nello stesso ristorante alla stessa ora. I contenuti entrano tutti in competizione tra loro, e le loro chance di successo sono tanto maggiori quanto poco sono impegnativi: la pressione di nuovi contenuti mediatici preme sullo spettatore affinché passi a quello successivo, e quindi il contenuto deve essere sufficientemente breve e semplice da sopravvivere a questo necessario avvicendamento, senza essere troncato alla prima asperità. Il contenuto ideale è dunque quello che si attacca alla passività dello spettatore, che gli ripropone un modello del quale è già padrone. La comunicazione mediatica tende così a essere monopolizzata e torna sostanzialmente a fluire in modo verticale, come dimostra il caso degli influencer. Agli esclusi resta la magra soddisfazione di una partecipazione larvale, un commento o un segno di approvazione che funge da consenso e rinforzo di legittimazione per chi conduce il canale. È interessante che, in chiave di marketing, il segno tipico di engagement sia considerato la “condivisione” di un post sulla piattaforma. Sarebbe una nuova forma di partecipazione attiva, introdotta dalle piattaforme. Eppure raccontare a qualcuno un programma televisivo che quello non ha visto, senza la possibilità di mostrarglielo o girargli un link, implicava un momento di narrazione pura, certamente più attiva che limitarsi a significare: “guarda anche tu!”.

Un simbolo della televisione, dai tardi anni ’80, divenne il telecomando, poiché assegnò allo spettatore un apparente potere di governare più imperiosamente la scelta dei programmi: prima, essere steso su un divano, magari insonnoliti, poteva essere sufficientemente dissuasivo dall’alzarsi per cambiare canale o per interrompere una pubblicità. Il telecomando perciò era un avanzamento in termini di distacco dalla passività. Col tempo, emerse il lato negativo: cambiare canale era così facile e confortevole che era un peccato non farlo, al primo dissenso dall’oratore o quando un discorso si profilava più complicato. In questo modo lo spettatore tipicamente passivo diventava proprio quello dello zapping, quello cioè che transitava da una trasmissione all’altra, non più immerso in un programma bensì in un flusso incoerente nel quale il brillio e il brusio dello schermo diventavano il vero filo conduttore dentro un’azione (guardare i programmi) spogliata del suo senso più profondo e ridotta a riflesso passivo.

Ecco di nuovo una linea di continuità fra il televisore e il device: lo zapping è l’antenato dello scrolling frenetico, e più in generale ha passato ai software per il device l’abitudine a una visione corta, frammentata e nevrotica (al contrario, i programmi guardati sul televisore tendono oggi a essere seguiti con una certa stabilità). Di suo, quale elemento passivizzante, il device ha aggiunto la playlist precompilata, che va avanti in continuità senza che lo spettatore/ascoltatore compia quell’azione di scelta che un tempo si celebrava come l’allontanamento dalla passività (naturalmente la playlist automatica può essere anche una fonte di conoscenza, e per alcuni lo è; tutto ciò di cui sto parlando può vivere in un mondo iperuranio, che è il migliore di quelli possibili. Ma la realtà dell’uso è diversa, e ad esempio la maggior parte di quelli che ascoltano passivamente la musica che sceglie per loro un algoritmo non sono poi in grado di dire quale autore o interprete hanno ascoltato). La playlist compilata fuoriesce dal campo della musica, e si sostanzia nell’induzione alla passività dello spettatore cui il display propone insistentemente cosa guardare.

Gli anni ’60 e ‘70, quelli in cui la televisione era in auge, furono scossi da profondi cambiamenti sociali e tutta l’era della televisione è stata contraddistinta da un progressivo consolidamento (ancorché pieno di difetti) della democrazia nel mondo. Dato il peso che i media hanno nell’esistenza di tante persone, è difficile pensare che sia stato un caso (e sarebbe qui troppo lungo spiegare la relazione). Allo stesso modo non è un caso che l’età del device stia segnando della democrazia un progressivo indebolimento, e che anzi sembri preludere alla sua conclusione: sarebbe un errore considerare la genuflessione dei magnati del tech davanti a Trump solo come una forma di opportunismo politico. Il populismo e le grandi imprese del tech giocano allo stesso gioco: fare dei cittadini degli spettatori passivi. Il modello non è la televisione ma la caverna di Platone.

Di |2025-01-31T17:02:21+01:0031 Gennaio 2025|5, Limite di velocità|

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