La comprensione del testo sta morendo

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Perché è in crisi e come reagire

Nel 2022 i giornali diramarono la notizia…

che il 51% dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni, secondo un’indagine citata da Save the Children, non erano in grado di comprendere un testo scritto. Riportata in questi termini era quasi una fake news, visto che il dato includeva soprattutto prove di matematica (non che fosse incoraggiante neppure questo). Nel 2018, però, un rapporto Ocse, in base alle prove Invalsi dei quindicenni, computava comunque nel 23% il numero di coloro che hanno gravi difficoltà di fronte a un testo. Come al solito, si punta l’indice solo contro i giovanissimi, spostando sul profilo generazionale un problema assai vasto, nel nostro paese più che altrove. In effetti, nel 2023, l’OCSE ci informa che un terzo abbondante degli italiani tra i 16 e i 65 anni non è in grado di capire cosa c’è scritto in un testo lungo e articolato; solo il sei per cento, poi, comprende correttamente le statistiche che legge (una statistica impressionante, appunto). Ma anche solo empiricamente, chiunque abbia a che fare per iscritto con dei giovani universitari o con degli adulti (pure di istruzione formalmente media o superiore) si rende conto quotidianamente che una quantità impressionante di persone non è in grado di districarsi in un articolo di giornale o anche in una mail lunga più di tre capoversi. È questa una delle grandi catastrofi sociali contemporanee, piuttosto sottaciuta nonostante sia un fattore profondamente disgregante delle comunità. Come è potuto accadere?

La rinascita dei nazionalismi e dei localismi viene sovente spiegata quale reazione alla globalizzazione: un istinto difensivo e impaurito dinanzi all’insicurezza che questa ha provocato. In modo non dissimile, la ragione per cui le persone faticano a capire cose abbastanza semplici deve essere intesa come una reazione alla complessità. Dopo che persino andare a farsi ammazzare in guerra era apparso di una linearità cristallina, gli anni sessanta e settanta del XX secolo misero in crisi vincoli, fedi, tradizioni e gerarchie. Il mondo globalizzato, e più tardi interconnesso, divenne maledettamente arduo da comprendere. Fino a che questo shock venne intercettato da movimenti collettivi, sboccò nella richiesta del diritto a capire (quali strutture operassero dietro le istituzioni politiche, la realtà sociale, il linguaggio); man mano che si spense nel culto dell’individuo solitario e consumista, si convertì nella pretesa del diritto a non capire: ritagliarsi la propria nicchia on demand di interessi e di (in)comprensione.

A partire dagli anni ottanta del XX secolo cominciò a fiorire, in qualunque settore dell’esistenza, un mercato della semplicità. Viaggiare, imparare le lingue, il giardinaggio, la meditazione, la filosofia, imparare a cucinare, a prendersi cura di sé: quale stupido si romperebbe la testa per venirne a capo, una volta che esistono tanti metodi per apprendere senza sforzo? Ricordo l’esplosione dei corsi per imparare a leggere velocemente, che scartavano a priori attività oziose tipo allenarsi leggendo molto o studiare a fondo una materia. Sfondo dell’intero nuovo asse della conoscenza (il cui baricentro ha preso a spostarsi sempre più sull’asse visuale), il localismo reazionario della semplificazione ha presto scelto la sua vittima sacrificale dentro il testo scritto: le proposizioni subordinate. Nelle subordinate si manifesta la vita: la sua incertezza, l’interdipendenza degli eventi, la causa e l’effetto, l’analogia, gli ostacoli che si frappongono a uno scopo. Nel pointillisme delle frasi monoverbali, quel dinamismo delle possibilità si spegne, insieme al contesto. Invece di opporre resistenza, tante scuole di scrittura (altro tassello nel mercato della semplicità) cavalcano festosamente la rivoluzione. Il parlare semplice- frase monoverbale/ripetizione/iperbole della frase, tutto dentro un monotema- diviene il nucleo della politica, fraintendendo volutamente il fatto che nello snellimento della sintassi e del vocabolario si celi una potatura dei concetti e dei pensieri. Parlare semplice: in politica di scrivere non se ne parla nemmeno. Al massimo ci penserà un ghost-writer, se e quando arriverà il momento di celebrarsi in un’autobiografia.

La lettura sullo schermo, veicolata dalla tecnologia digitale, viene praticata in modo abissalmente diverso da quella sulla carta. Sin dal 2006 – quando la pagina web era tendenzialmente assai meno distraente di oggi – i ricercatori constatarono dai movimenti oculari che nessuno legge riga per riga ma pencola fra l’alto e il basso, più per economizzare la lettura che per attuarla: siccome saltando qua e là non capisce un cazzo, se ne va appena butta male (e butta male per forza, dato che non capisce). Chi scrive e vuole nutrire qualche speranza che la lettura vada avanti almeno per un quarto deve semplificare: ripeto, non solo il linguaggio ma i concetti. Così, sull’atterraggio del banale si incontrano domanda e offerta fra chi scrive e chi legge, e il risparmio di consumo intellettuale viene premiato con un quoziente di gradimento. Dato che il cervello quando non esercita una funzione perde l’attitudine a svolgerla, come scrive Nicholas Carr si indebolisce “quel tipo di attenzione profonda che è alla base dell’acquisizione attenta di conoscenze, dell’analisi induttiva, del pensiero critico e della riflessione”. Spesso viene citata quale controprova il fatto che le collane di narrativa strabocchino di romanzi lunghi. Il fatto è che un testo lungo non è necessariamente più complesso di quello breve: “mi scuso per la lunghezza della mia lettera ma non ho avuto il tempo di scriverne una breve” scrisse Blaise Pascal a un suo interlocutore epistolare; e in effetti questi romanzoni sono addomesticati per il lettore pigro, o quando sono davvero dei capolavori vendono una miseria. Le piattaforme social e di messaggistica completano l’educazione alla non-complessità, scansando quel fluire di subordinate che porta con sé la conversazione sincronica: e pur stringandosi in enunciati monoverbali, tanto patiscono la consapevolezza che l’altro potrebbe non capire nulla che si accompagnano prudentemente alla didaiconia degli emoticon (si potrebbe non capire nulla dell’umore che accompagna il testo: ma tutti i testi sono incomprensibili se non se ne coglie la temperatura emotiva). Oltre al fatto che il susseguirsi l’uno all’altro dei messaggi rende impossibile la concentrazione che esige una qualunque lettura – si susseguono l’uno all’altro e distraggono; ma prima di susseguirsi si annunciano, mediante la notifica, e quindi distraggono due volte. Tre, o molte di più, se consideriamo la tensione per la loro attesa.

Un testo viene compreso nella misura in cui chi lo ha scritto e il lettore condividono un sistema di conoscenze: anche il testo più esplicativo e rivelatore richiede che almeno l’ottanta per cento di quel che contiene sia già noto al lettore. Sapere cosa significhi una parola o in cosa consista un concetto o un richiamo storico, o comprendere in quale registro debba essere intesa un’asserzione (dice sul serio o è ironico?). Inoltre, un articolo contiene anche quel che apparentemente non contiene: un testo cioè è fatto di non detti e di lacune che ne integrano il senso, che chiedono di essere completati dal lettore. Vale per una lettera, per le mail e i messaggi, per i manuali, per le richieste di pagamento, per le affissioni nel condominio, per i romanzi rosa, per i tomi di filosofia, per gli articoli di giornale.

Qualche anno fa, mi soffermai criticamente sul fatto che un valente intellettuale, Marco Revelli, in un saggio nel quale parlava del concetto di umanità, avesse inserito la frase “com’è noto, si tratta delle parole con cui il benevolente Cremete replica all’egoista Menedemo”. Posso rassicurare chi sta leggendo ora che davvero è un’informazione ai limiti dell’esclusività sapere cosa si dicono Cremete e Menedemo nell’Heautontimorumenos, e nel mio articolo, mi domandavo, quale pubblico avesse mai in testa Revelli scrivendo il suo libro (il problema non era la citazione del commediografo romano Terenzio, bensì dare per scontato che fosse conosciuta). Una volta chiarito il torto elitistico dell’autore, rilevavo però che la questione della conoscenza condivisa è diventata veramente tragica. Riporto qualche passaggio del testo mio: “Oggi esiste un problema generale, e cioè che davvero chi scrive condivide un numero minimo di cose note con i suoi lettori. Il discorso pubblico, ai suoi albori, quelli del mito, si è fondato esclusivamente sulle cose note. La qualità del discorso pubblico era la chiarezza o l’eleganza della sua ripetizione, e fu contro questo stile di discorso pubblico che Socrate puntò il dito accusatore. La storia della nostra civiltà è coincisa con l’allargamento del discorso pubblico, sulla sua attitudine innovativa che però andava a posarsi su cose note che gli ascoltatori avevano accumulato, sommando la storia, la tradizione e l’esperienza personale. Una delle ragioni che rendono il discorso pubblico dei giorni nostri più debole che in passato è anche che questo strato di notorietà si è andato assottigliando: quasi tutto quel che sappiamo è frutto di esperienza indiretta (e quindi lo sappiamo fino a un certo punto); la necessità commerciale di renderci soggetti targettizzabili ci spinge verso la cristallizzazione dell’identità e quindi ci rende schiavi dei pregiudizi come gli antichi erano soggiogati dai miti; l’esplosione e la velocità delle informazioni rende impossibile una loro reale condivisione. Soprattutto, le vecchie conoscenze vengono inglobate nell’obsolescenza programmata, propria delle macchine: dall’accumulo siamo passati alla sostituzione. Una quantità impressionante di persone, soprattutto giovani, ignora completamente la storia e non saprebbe dire i nomi di chi riveste cariche politiche. E una parte di quel che viene dato per noto, dulcis in fundo, è un noto falso, come può essere la convinzione, accomunante milioni di persone, che il virus l’abbia messo in mezzo Bill Gates per guadagnare soldi”.

Queste considerazioni potrebbero apparire esageratamente catastrofiste, dato che il livello formale di istruzione è incomparabilmente più alto che in passato. Come potrebbe mai essere peggiorata la comprensione media del testo se il livello di istruzione e alfabetizzazione si è abissalmente innalzato? Ad esempio, negli Stati Uniti, nel 1920 solo il 28% dei ragazzi frequentava la scuola superiore, contro l’80% di oggi; nel 1940 il 5 per cento degli americani aveva una laurea contro il terzo di adesso. I dati degli altri paesi, compreso il nostro, non si discostano troppo da questi. Ci sono tuttavia due problemi. Il primo è proprio l’allentamento della correlazione tra il grado formale di istruzione e la capacità di comprensione: una crescente specializzazione settoriale delle conoscenze sviluppa un’attitudine a districarsi in una specifica materia ma lascia carente, fuori da quel campo, la capacità analitica generale. La seconda è che, nel tempo in cui tante persone erano dichiaratamente ignoranti, il loro sogno era che i figli uscissero da quella che loro per primi riconoscevano come una gabbia. Magari erano meno le persone che avevano le attitudini per comprendere un testo: e però molte di più, rispetto ad oggi, quelle che pensavano che capirlo rappresentasse un valore, e si sentivano in difetto se non ci riuscivano.

Il punto è dunque questo: siccome la comprensione del testo (o l’aspirazione a comprenderlo) richiedono una condivisione di conoscenze – e dato che la condivisione delle conoscenze è un fattore significativo dell’esistenza di una comunità – quando la comprensione media del testo crolla ne ricaviamo che la comunità è sul punto di sgretolarsi. Non parlo solo della capacità di leggere libri o articoli complessi. Per il cumulo di fattori che ho descritto, monta una ridotta capacità di comprendere testi di interazioni personali o di lavoro, o istruzioni per accedere a servizi e formulare richieste. Prima ho accennato ai messaggi: visto che lo scambio di comunicazioni per via telefonica è una mistura di scritto e orale, che in passato ho definito scriparlato, il testo che comincia a sfuggire è pure quello orale. E dato che nessun testo vive da solo, ma è legato a milioni di altri testi, quel che si va riducendo è la capacità di leggere quel macro-testo che è la realtà in cui viviamo (salvo che qualcuno non ce ne porga una versione semplificata, e perciò falsa, come in effetti sta accadendo). Credo che la comunità dovrebbe reagire con vigore a questo pericolo di autodistruzione. Come? Due esempi. Il diritto di voto subordinato a un test di comprensione del testo, gestito in sicurezza dall’intelligenza artificiale. Una specifica materia scolastica, da mettere in cima per importanza, che attraversi interdisciplinarmente tutte le altre.



Di |2025-06-06T18:47:51+01:0023 Maggio 2025|5, Limite di velocità, Open space|

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