Morto un papa se ne fa un altro, ma rifarne uno come questo non sarà facile. Arrivato al soglio pontificio con le credenziali di un outsider (il primo gesuita, il primo papa non europeo, il primo a scegliere il nome del santo del voto di povertà) ha sparigliato da subito le carte, recuperando quella dimensione pastorale che molto si era offuscata nei predecessori più immediati. Meno dotto teologicamente del collega dimissionario, non era tuttavia un semplicione: a lui si devono il risanamento delle finanze vaticane e l’azione pubblica (di denuncia come di repressione) della pedofilia nella chiesa. Che oggi la sua perdita addolori molti laici più dei cattolici intransigenti è dovuto alla qualità straordinariamente progressista di certe posizioni politiche: ancora si attende da un partito politico di sinistra occidentale una critica tanto radicale del capitalismo. E chi se lo sarebbe immaginato un papa che si poneva all’avanguardia dell’ambientalismo? Oltre tutto, insistendo sulla dimensione scientifica del problema: insomma disegnando in modo inedito il critico rapporto tra la scienza e la fede.
Il marchio di personalità più evidente è stata la vicinanza agli ultimi, espressa anche fisicamente in occasione dei viaggi e con grande vigore riguardo ai migranti. La parola chiave del suo pontificato è stata: solidarietà. La sua agenda dimostra che chiacchierare con i potenti gli è interessato poco. Le rare conquiste diplomatiche (come il recente accordo con la Cina) sono frutto del lavoro sotterraneo di Parolin. Non ha mai smesso di stupire per la franchezza delle sue posizioni (da ultima la questione di Gaza), manifestate con quello stesso linguaggio schietto e pop con cui affrontava temi quotidiani. Ha preso in carico anche le discriminazioni dentro il popolo dei fedeli: per dei cattolici praticanti, la comunione ai divorziati e la benedizione agli omosessuali non sono bagatelle (Benedetto XVI aveva definito l’attrazione per lo stesso sesso “una forte tendenza a un male morale intrinseco”). Ed è rimasta indelebile la sua risposta “Se un gay è credente e ha buona volontà, chi sono io per giudicarlo”. Chi sottolinea che abbia pur sempre considerato l’omosessualità un peccato, in un contesto peraltro rivalutante quale “non sono certo questi i peccati gravi”, mostra uno sconcertante disinteresse al contesto, e anche al fatto che non è certo dalla chiesa cattolica che si deve reclamare la proclamazione dei diritti civili. Sempre di un papa si trattava, insomma, e il giudizio deve inglobare questa premessa: chi si attende che un papa abbandoni una visione circoscritta della famiglia e della sessualità ragiona stupidamente, come se pretendesse di fargli dire che la Trinità è una stronzata. Pure rispetto alla pace, ad esempio, è normale (e purtroppo eccezionale nella storia, e certo non solo per le Crociate) che il rappresentante di Cristo perori la causa di una pace incondizionata in terra: che questa non venga confusa con la resa dell’aggredito è compito che spetta al consesso delle nazioni.
Va tuttavia riconosciuto, riguardo alla procreazione, che la linea di Francesco negli ultimi anni si è indurita in senso pesantemente regressivo. Di nuovo: mi aspetto una chiesa abortista e trovo nell’ordine delle cose (e delle Scritture) che non sia il luogo dove perorare l’uso degli anticoncezionali. In questo campo però non solo è mancata ogni mediazione ma due recenti episodi sono apparsi veramente sopra le righe, anche se misurati con la tara del cattolicesimo: il rialzo di tensione della crociata antiabortista proprio nel momento in cui determinava una convergenza elettorale con l’aggressività delle destre populiste (di certo non sensibili in generale al valore della vita) e la surreale parificazione degli anticoncezionali alle armi distruttive. A ben vedere, però, il primo caso rientra nel sostanziale disinteresse di Francesco per le ricadute politiche del suo operato (che nel novanta per cento dei casi ha suscitato ammirazione) e il secondo nell’aneddotica del suo linguaggio disinibito, curiosamente intersecato tra la spontaneità e la disposizione mediatica (così lontano dalla concezione della messa in latino, che in effetti ha ferocemente osteggiato). Azzarderei inoltre che un filo di senilità sia stato alla radice, negli ultimi anni, sia di quell’inclinazione conservatrice che assale gli uomini col progredire dell’età sia di una piccola perdita di controllo nelle esternazioni. Del resto, Francesco ha agito sovente in modo bizzarro e alieno dalla convenzioni, e senza maschere ci ha mostrato la naturalezza della sua umiltà di sovrano reticente, che alloggia in una stanza di ostello, gira a piedi per la città e alla fine si fa calare nella terra coperta solo dall’iscrizione del nome e fuori dal Vaticano; e, allo stesso modo, ci ha mostrato la sua debolezza di peccatore, che tirerebbe un pugno a chi facesse del male alla madre o realmente schiaffeggia la mano della pellegrina irruenta che lo spintona.
La pluralità di splendenti caratteristiche di Bergoglio ha tuttavia alimentato aspettative che restano deluse: alla morte, la prima sensazione è che la chiesa ne esca riformata assai poco, e che anzi non sia da escludere un ritorno all’indietro. Il franco sprezzo di Bergoglio per il potere e per chi lo esercita, così entusiasmante sotto il profilo umano, non lascia ottimismo sulla durata della sua impronta. Basti dire che Francesco ha nominato l’ottanta per cento dei vescovi che eleggeranno il successore: questo lascerebbe pensare che la scia sia naturalmente tracciata. Il tipo di impostazione delle nomine è ammirevole: recupero di rappresentatività dei paesi extraeuropei, ringiovanimento, presenza di diocesi di apparente poco conto in luogo di quelle intoccabili. E però Francesco non se l’è sentita di trasformare tale rinnovo in un consolidamento di potere: ha pescato equamente, se non casualmente, tra progressisti e conservatori; e nemmeno li ha mai fatti incontrare, questi vescovi. La continuazione del suo mandato è dunque una sorta di lotteria. Nemmeno possiamo dire che si sia speso troppo concretamente per puntellare culturalmente la sua volontà riformatrice. Vero che ha convocato un singolarissimo “sinodo sulla sinodalità”, infarcito di donne e di outsider, volto a discutere la struttura ecclesiastica e a contaminarla di laicismo, ma la sconsolante genericità delle conclusioni e i pareri di chi vi ha partecipato attestano che non è cambiato assolutamente nulla. I necrologi da parte di alcuni conservatori fanno accapponare la pelle, considerando errori della storia le “ambiguità” verso Islam, gay e donne: proprio riguardo a queste ultime, nonostante tante buone parole teoriche sul loro ruolo, il diaconato femminile è rimasto una chimera. Oltre alla difficoltà di serrare i ranghi all’interno, per via delle sue posizioni più avanzate, Francesco si è col tempo sempre più confrontato con la mancanza di rispetto dei capi di stato cui inoltrava appelli, caduti nel vuoto senza che nemmeno si avvertisse l’obbligo di giustificarsi. La visibilità mediatica di Francesco, frutto del suo talento comunicativo, è andata di pari passo con una perdita di efficacia della presa sulla realtà. Parlo di peso diplomatico, forse mai così scarso, ma anche di incidenza sulle masse. Uno dei momenti più avvilenti nella storia recente dell’intelligenza di specie è la sfilza di improperi che, sulle piattaforme social, persone che si definivano pure credenti riservavano al papa invocante l’assistenza ai profughi e ai migranti chiedendogli perché non se li prendesse in casa lui. Non si limitavano cioè a manifestare legittimamente la propria vocazione egoistica, ma proprio non si capacitavano che il portatore del verbo cristiano non raccomandasse di lasciarli affogare al largo.
In effetti, quando Francesco ha fatto della solidarietà il vessillo del suo mandato era pensabile che il messaggio avrebbe viaggiato a cascata attraverso le parrocchie e creato un humus differente, almeno in parte. Invece, il papato di Francesco ha attraversato un mondo in crisi valoriale senza riuscire seriamente a incidervi, né con la predicazione né con la diplomazia, e anzi vedendo consolidarsi una schiera di nazionalismi aggressivi, che sfruttano anche le credenze più retrive e superstiziose della religione. Per queste ragioni, il suo esempio personale e la sua statura umana rimarranno mirabilmente scolpite ma l’eredità rischia di risultare fallimentare. Dal punto di vista dell’etica c’è sempre un problema di compatibilità tra la purezza della rivoluzione e la compromissione nell’esercizio del potere conquistato: per questo Fidel Castro verrà ricordato nella storia come un dittatore e Che Guevara come un eroe incontaminato. In attesa della beatificazione, il miracolo di Francesco è stato di arrivare rivoluzionario al potere, ed uscirne incontaminato: in questo modo ha salvato la sua anima ma pure perduto un’opportunità per salvare quella della chiesa.
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