La storiopatia, come noto, è una malattia delle storie, che può essere infiammatoria, degenerativa o neoplastica. Per effetto di una carenza di fantasia nel sangue o di una postura scorretta delle parole si può giungere addirittura alla paralisi narrativa. Lo Storiopata è un terapeuta, che non disdegna talora di contaminare la sua pratica con discipline di confine, e cura la storiopatia secondo un metodo oh!listico e mah!nipolatorio. Un giorno pubblicherò un libro di memorie, ripete lo Storiopata. Però finisce sempre per dimenticarsene.
Quel mio telefono rubato a Napoli
Pochi giorni fa ero appena arrivato a Napoli, la mia città natale, e per festeggiarmi mi hanno rubato il telefono pochi minuti dopo essere sceso dal treno. Devo premettere che io non uso il telefono, non come mezzo di comunicazione. Rispetto al caos della perdita di contatti il furto mi fa un baffo. Lo adopero però massicciamente per altro. Così, nel giro di pochi secondi, ho perso le foto e i video di sette anni. E circa 1800 schede di appunti, molti contenenti idee, progetti, elenchi. Ho perso irreversibilmente un pezzo di passato e un pezzo di futuro.
L’impari lotta contro i luoghi comuni.
Così un amico ha commentato il messaggio con cui mia moglie Giulia lo informava che mi avevano rubato il telefono a Napoli.
Potrebbe accadere in tutte le grandi città? Forse, ma in questa mia mi è parso ineluttabile.
Obbligatorio, come la vidimazione del biglietto. È accaduto in metro. Eccezionalmente lo portavo nella tasca laterale del pantalone. Nel flusso dei passeggeri un uomo mi ha intralciato, claudicante e sghembo appena avanti a me, come se faticasse a tenere la direzione del passo, costringendomi a spostarmi lateralmente se non volevo buttarlo per aria. Poi, come si fosse reso conto del disagio, ha ruotato leggermente il busto invitandomi a salire con la mano tesa a gesto di cortesia: “Prego!”.
Una volta salito sul mezzo pubblico, mi sono seduto, e non vedendolo sul vagone mi sono chiesto come avesse fatto a dislocarsi in un altro con quell’acciacco.
È bastato questo per incrementare la sensibilità della mia coscia, e realizzare che non vi premeva sopra il telefono e la tasca era vuota.
Siamo scesi alla prima fermata per tornare indietro, mentre mandavamo un messaggio al mio numero con il telefono di Giulia. “Il telefono non vale niente” (avrei aggiunto “è comm’a te”, ma non sarebbe stato un buon viatico alla trattativa). E poi, con un secondo messaggio: “Dimmi dove sei e portalo che ti do 50 euro” (avrei aggiunto “oltre un fracco di botte”, ma potevo persino abbracciarlo se avesse aderito al gentlemen’s agreement). Intanto abbiamo ripreso la linea al contrario. A quel punto potevo aspettarmi di tutto. Anche un meteorite sul tettuccio, sai quando le giornate prendono una china storta.
Tutto tranne quello che è accaduto, pochi secondi dopo che sono salito.
Una mano in tasca. Un giovanotto sulla ventina d’anni abbondanti che con parecchia meno destrezza del primo (ah, i mestieri di una volta!) ci prova, per giunta posizionato di fronte, cioè un imbecille. “Ma che cazz’fai!” gli schiaffeggio la mano che manco è ancora riuscito a estrarre dalla tasca.
Gli sbraito infuriato che meno male che me ne so fujut a’ sta mmerd’e città, e che sta succedendo, e comunque il telefono se lo erano già fottuto, vabbuò?
Capirete dunque perché dico (con dolore) che a Napoli è diverso. Due corse di una sola fermata, l’andata e il ritorno. Una sistematicità impressionante.
Preciso che ero vestito con una maglietta e un pantalone. Che non porto Rolex, anelli, catenine, capi firmati, scarpe brandizzate. Potrei anche sembrare un pezzente, e non è neppure detto che non lo sia davvero.
C’erano tanti altri posti in cui poteva capitarmi di peggio. Una coltellata, mettiamo.
Ma la mano in tasca andata e ritorno secondo me no.
A Napoli torno meno di quel che vorrei, quando va bene due volte l’anno. Ho ancora qualche importante affetto familiare (il più giovane, Eli, compiva quattro anni: il motivo di scelta della data) e pochissimi affetti parafamiliari – una volta erano tanti, ma il tempo la distanza la morte il perdersi eccetera.
La meta ineludibile del mio viaggio però era il cimitero. Il 2025 segna infatti il centenario della nascita dei miei genitori. Mia mamma non voleva mai che si rivelasse la sua età, da viva, e che gli anni erano gli stessi di mio padre. Adesso, presumo, il veto è caduto.
Mai faccio trascorrere un anno senza andare alla loro tomba, questo poi! Vado lì e parlo con loro.
Per lo più mentalmente, non è una situazione in cui c’è bisogno di fare chiasso o alzare la voce.
Non è che penso che stiano lì ad ascoltarmi, però mi sento così e tanto basta. Tendenzialmente credo che non stanno più da nessuna parte ma se fosse il contrario sono certo che non mi vorrebbero dare il disturbo di prendere l’aereo, passerebbero loro da me quando possono. Credo che non stanno da nessuna parte salvo che dentro di me. Io me li sento dentro, e questa è una bella cosa, per me e per loro. È impossibile che un giorno scriva un romanzo raccontando che erano una chiavica, come si usa di recente. Avevano i loro difetti, eh? Però mi hanno dato quel che potevano, e non è stato poco. Così quando ci incontriamo nella mia memoria, stiamo sempre di buon umore. Localizzarli in un posto simbolico e installarmici per mezzora mi aiuta a immergermi nei ricordi e nelle sensazioni. Chiaramente i ricordi mi vengono in mente anche in modo più o meno quotidiano. Ogni tanto dico allegramente a Giulia: pensa, questa me l’ero scordata. Per dire, mia mamma non aveva una gran vita sociale (cioè, non l’aveva affatto) ma era molto spiritosa, in stile teatro di Eduardo. Ultimamente ha preso a capitarmi spesso che mi affiorassero sue battute che mi si erano dileguate da un’eternità.
Per non scordarle di nuovo ho preso a segnarmele sugli appunti del telefono. Se ben ricordo la sua scheda era intitolata “Frasi di mamma”.
Per difendere qualsiasi nuova tecnologia si cita sovente lo svarione di Socrate, per il quale la scrittura sarebbe stata tossica per la memoria. Nel Fedro, Platone mette in bocca a Socrate queste parole (che a loro volta riporterebbero quelle del mitico re Teuth): fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori da segni estranei e non dal di dentro e da se medesimi. Dunque nella scrittura non hai trovato il farmaco della memoria ma quello del richiamare alla memoria.
Il senso è che i supporti esterni cancellano la memoria, e a ben vedere forse Socrate non ha sbagliato la predizione; solo, bisognava attendere qualche tempo perché si compisse.
Se in questi secoli di derisione Socrate avesse potuto replicare sul punto, avrebbe detto: sì, sì, pigliatemi per il culo, poi quando vi fate un giretto a Napoli e vi fottono il telefono ci facciamo le risate.
Perché finché transitava sulla carta la memoria ci poggiava ancora la mano sulla spalla.
In realtà, io la uso ancora, la carta. Ho una collezione differenziata di piccoli, stilosissimi bloc notes, e ne tengo sempre uno a portata. Se l’idea che mi viene in testa è già matura la segno lì. Se invece è un’idea che va sviluppata la annot(avo) sul telefono. E anche se avvia una lista (tipo “Frasi di mamma”; oppure numeri di pagine di libri nei quali incappo in un certo argomento su cui un giorno forse vorrei scrivere un libro a mia volta; oppure luoghi che mi hanno conquistato in un
certo posto, o dove vorrei tornare; o quelle con uno sbocco eminentemente pratico, che reputo indegne dei miei blocchetti di appunti).
Per questo i miei appunti sul telefono segnavano un incontro fra la memoria e il progetto.
Oltre a due elementi obiettivi. Il bloc notes le foto non le fa, e neppure i video.
E con gli anni la mia grafia è sempre più illeggibile.
A volte, al lavoro, vado dalle mie segretarie: “Scusate, ma che avevo scritto qua?”.
Poi per scrivere sul bloc notes devo avere la possibilità di prendermi un attimo di raccoglimento.
Come quando vado al cimitero.
Quest’ultima volta era poco affollato. Solo, c’era un tizio che andava avanti e indietro infuriato, perché i lumini sulla tomba dei suoi cari erano spenti.
“Dicono che non abbiamo pagato” veniva da me per coinvolgermi “E tutti quanti non abbiamo pagato? ‘Sti fetienti!”. Stavo cercando di non dargli retta perché al cimitero voglio stare in pace, però in quel momento ho notato che in effetti erano spente quasi tutte le luci dell’infilata di sepolcri. Per i miei genitori la situazione era diversa. Mancavano proprio i lumini.
Non c’avevo prestato attenzione. Loro non c’avrebbero prestato attenzione. A casa convivevamo con strane forme di precarietà funzionale. Per esempio, la camera mia aveva quattro finestre, ma le tapparelle di una erano rotte, il nastro non girava nella carrucola e così sono rimaste per trent’anni. Al mattino, per prima cosa, mi alzavo e tiravo quella tapparella sino a estenderla, e poi la avvolgevo attorno alla maniglia della finestra.
La scorsa settimana sono andato a vedere la casa dove mio figlio, abbandonando il nido (doveva accadere prima o poi) è andato ad abitare. In cucina una delle finestre aveva la tapparella abbassata. Non sale, mi ha spiegato. Guarda, si fa così. E ho replicato lo schema dell’infanzia. Lui mi ha fissato stupito, come fossi diventato un uomo nuovo, o un figlio che è andato a studiare fuori e ha imparato un sacco di cose. Era la prima volta che mi vedeva risolvere un problema
manuale. Dicevo del cimitero però. Visto che non gli davo retto, il signore si è arreso ed è andato a sbraitare più lontano. Per dire come a Napoli, in termini di gentilezza e sensibilità, si passi da un estremo all’altro, cito spesso una giornata al cimitero di tanti anni fa. Due eventi accaduti nel giro di un minuto. Il tempo di dire questa città è unica, per le due ragioni opposte.
Prima, due signore si sono messe a parlare col timbro di Maria Callas proprio a fianco a me che ero davanti alla tomba. Non stavano in quel preciso posto perché avevano pure loro una tomba di famiglia. Si erano fermate li per caso, o perché spirava più brezza, come a via Caracciolo. Gli ho chiesto di spostarsi o abbassare la voce. Hanno ubbidito, però mi hanno guardato con il chiaro pensiero che ce ne viene di gente strana al cimitero.
Andate via loro, sono rimasto solo e ho messo nel vaso i fiori, che avevo lasciato per terra fino a quel momento. Erano rose, le ho ficcate una per una.
Sono passati due signori che chiacchieravano basso. Uno si è girato per un secondo sulla scena che mi comprendeva e ha assunto un’espressione costernata. “Scusate” sussurrava quasi” “Uno è rimasto fuori”, e poi ha ripreso il cammino e la fioca conversazione.
Pendeva, esterno al vaso, il gambo di una delle rose.
Le due ragazze nel centro Vodafone in stazione chiamate a gestire il blocco della sim e la consegna della nuova prendono assai a cuore la vicenda del rammaricatissimo signore derubato di un pezzetto della sua memoria (per il tramite del telefono) appena tornato nella sua città. Decidono che devono riequilibrare con uno zelo empatico e soffocante la reputazione dell’animo partenopeo, confermando la teoria degli estremi. C’è un inghippo burocratico risalente all’impostazione dell’account, e fanno tipo trenta telefonate per sbloccarlo. Credo che manchi solo l’amministratore delegato. Si battono con fervore interrotto solo dal necessario passaggio per la mia voce per la conferma della richiesta. Mi accostano amorevoli il loro telefono all’orecchio affinché ripeta: si sono tal dei tali, nato quel giorno e il mio numero era questo (dati che peraltro chiunque potrebbe avere estrapolato). Escono temporaneamente sconfitte, ma insistono nel pomeriggio e riescono almeno a ricavare un accesso al fai da te (che poi risulterà in lunga manutenzione). Una di loro, Rossella, trasmette a Giulia le informazioni con un vocale e poi scrive Vi auguro un buon soggiorno e vi abbraccio forte . “Al nostro caldo ringraziamento” aggiunge. Grazie anche a voi quando tornate a Napoli se venite con il treno passateci a salutare è un piacere.
Più che un furto è stato un dispetto. Essendo il mio telefono un vecchissimo modello – che manco mi ricordavo, nel prosieguo dell’istruttoria presso la compagnia sono risalito alla sua identità di Huawei P3o Lite – il valore economico è pari a zero, e il mariuolo si sarà pure incazzato. Con la speranza che l’abbia buttato esploro i cestini dell’immondizia sul binario del delitto. Alla fine, ci rechiamo all’ufficio di polizia della stazione. L’agente di servizio mi rassicura sulla preoccupazione dei dati sensibili, peraltro protetti da password. Non hanno tempo da perdere, ormai è una catena di montaggio: dopo pochi minuti buttano la sim (per dieci squillava ancora), poi se il telefono non vale niente lo smembrano e per qualche miseria vendono i pezzi di ricambio, o dopo averlo resettato lo rimettono integro su un banchetto fuori alla stazione e provano a venderlo per cinque euro. Il margine del ladro presumo possa essersi assestato su una cinquantina di centesimi. “Accade di continuo, non le dico dopo i festeggiamenti dello scudetto. E per certi è una tragedia. Ieri da me c’era un giapponese che piangeva, teneva tutto segnato sopra, non sapeva neppure in quale albergo aveva prenotato. Ci siamo parlati in quel poco di inglese, gli ho consigliato di andare al consolato, almeno parlano la sua lingua”. Mi avverte che la denuncia servirà solo per bloccare la sim e riavere il numero. “Dotto’, se ora vi serve un telefono nuovo, manco a farlo apposta tre giorni fa l’ho cambiato, mi hanno dato in offerta questo Xiaomi, solo 99 euro, ve lo consiglio, vi spiego dove andare, guardate che bella definizione delle immagini” e mi mostra una foto di famiglia. Sul modulo di denuncia, sopra lo spazio in cui deve apporre la firma, è scritto in alternativa: ufficiale/agente. Barra sopra agente e poi precisa con orgoglio: “Sono gli ultimi giorni. Da martedì divento ufficiale”.
(Uno degli ultimissimi appunti annotati era una notizia che mi era parsa interessante, da tirare fuori quando se ne sarebbe presentata l’occasione: si tratta del numero di componenti dell’IPhone. 2700. Mi pare. Non avendo più a disposizione l’appunto non posso verificare se invece siano 27.000 o 270.000. Comunque sono tanti. Mi chiedo quanti fossero quelli del mio. Almeno un migliaio, no? Quanti ne saranno rimasti in circolazione? E se fosse uno solo? E proprio non ci sarà alcuna marcatura di un ricordo mio personale, una macchia rimasta sulla tovaglia? Ecco c’è stata l’occasione di tirarla fuori la notizia dei 2700 pezzi. Prima del previsto. Mi piace di tanto in tanto segnarmi cifre bizzarre e abnormi. Per lo più i miei appunti, comunque, hanno un taglio più emozionale o creativo.
Le prime tre notti dopo il furto mi svegliavo nel cuore della notte e sulla scia di un flash improvviso pensavo: merda, ho perso pure quello).
Per un napoletano che torna per qualche giorno, subire questo furto è un altro pezzo di sradicamento (continuo riferire lo smarrimento agli appunti e alle foto, l’oggetto in sé non mi prende in alcun modo. E anche quando è capitato che si rompesse o perdessi un oggetto investito di valore effettivo mi sono presto consolato dicendomi: è solo una cosa) La città non ha il tempo per farsi davvero perdonare. Oltre tutto quel dispiacere all’impatto non è la migliore lente per osservarla. Però il degrado mi sembra obiettivo, nella manutenzione e nel verde, ad esempio. In questo articolo, relativo a un’altra ferita che Napoli aveva inferto alla mia memoria, avevo già espresso il mio punto di vista sulla scelta della città di risorgere inseguendo il turismo di massa, altresì infiltrato dall’immissione di capitali della camorra. Una figura prototipica mi perseguita ora lungo ogni anfratto del centro storico: il turista con addosso la maglietta di McTominay che si ingozza di frittura. Resistono sacche di una civiltà antica della quale porto l’amore, l’impronta, il peso e la responsabilità (e mi capita spesso di sbottare, riguardo certe forme di scadente relazionalità di altre città, e in ispecie della Torino in cui vivo: no, questo a Napoli non accadrebbe). Ma mi paiono condannate a una non lontana estinzione.
(Una coincidenza assurda: da un paio di settimane ho finito di scrivere un lungo, stremante e intenso romanzo che, stanti le incertezze e i tempi dell’editoria, se va bene leggerete tra un anno e mezzo. L’evento da cui la storia di dipana è una perdita parziale di memoria, causata da un’aggressione vicino alla Stazione Termini. Il mio evento personale è molto più soft ma la consonanza è evidente, pare proprio che me la sono chiamata). Ovviamente la responsabilità della perdita è tutta mia, che non ho salvato le foto e gli appunti. E però è così aggressiva anche lei, quella continua richiesta di accedere ai dati tutti del telefono e tutto condurre in cloud! Tutta quella tecnologia, per poi negarti l’immediata copia dei dati con un semplice cavetto! Uno delle palmari evidenze riguardo al fatto che i dispositivi agiscono per il tornaconto dei produttori e delle piattaforme, e solo accessoriamente del tornaconto nostro. Poi uno rinvia, e ancora rinvia. Poi si scorda, e quindi Socrate non aveva torto. E quelle copie di noi là dentro che sbucano sotto la pressione di un’unghia in modo così convincenti da convincerti che sono l’originale. E perciò nessuno può far loro nulla di brutto.
Si perdono migliaia di foto in un colpo da quando si possono scattare così, a raffica. Senza rimetterci, senza spesa né responsabilità.
Siccome non uso social e messaggerie le foto le scatto per loro stesse, oltre che per me e per le persone care che ritraggo, quando si tratta di persone. Non mi è mai appartenuto quel terribile stare in un posto per esserci stato, di cui la foto è il simbolo e il tramandatore in real time. E tuttavia, ammetto una certa patologica a-sincronizzazione in qualunque uso del telefono. Il custodire per ricordo (la foto, l’appunto) implica sempre che hai cominciato a ricordare prima ancora che finisse l’esperienza (dell’immagine scattata, del pensiero). E quindi diventano più labili sia l’esperienza che il ricordo.
Ammetto che la metà degli appunti e delle foto che di tanto riguardavo mi inducevano a chiedermi: perché ho fatto questa foto? (oltre tutto nelle foto cerco lo strano più che il consueto). Oppure: cosa volevo dire con questo appunto? Anche con la franchigia di metà, però, l’ammontare del perduto significativo è consistente.
Ogni foto e appunto era un rimandato a dopo. Se avessi perduto un prima sarebbe stato meno grave. Nel flusso della vita accade ogni minuto.
Una piccola parte del mio vissuto è stata resettata prima di accadere.
C’è un altro aspetto umano desolante a margine di questo episodio, a pensarci. Viaggiando mi è capitato diverse volte di visitare posti nei quali era consigliabile stare vigili e con gli occhi aperti. La Paz, per dirne uno (città bellissima, fra l’altro). Perché se pure venerdì scorso fossi stato a La Paz questo episodio non sarebbe accaduto? Perché non era Napoli: ma con questo intendo una questione personale. Arrivando a Napoli mi è naturale abbassare la guardia, perché ci sono nato e una certa nostalgica leggiadria intorpidisce i sensi, le membra, l’attenzione.
E qui dobbiamo allontanarci dal caso e luogo specifico e avvicinarci a un universale del nostro tempo: siamo sotto pressione e osservazione da una miriade di enti, soggetti e automatismi che contano, per prenderci qualcosa, sul fatto che a un certo punto abbassiamo la guardia. L’intero assetto tecnologico-capitalista si fonda su questa sistematizzazione, a partire dalle piattaforme e i software a caccia di dati.
E al fondo di tutto, l’ingresso in un’età nella quale, nonostante tutta la vitalità che puoi rovesciare sulle giornate, il conto delle cose che si perdono o esauriscono si incrementa già di suo, senza neanche bisogno che qualcuno ti metta la mano in tasca.
Dopo di che, fine della lamentela. Attesa dei prossimi treni, delle prossime stazioni.
Foto in Home di Remo Bassetti.
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