Il premierato e la democrazia

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Quando si parla di forme di governo occorrerebbe sempre tenere a mente una premessa: mentre in un regime autoritario si governa mediante una dittatura in un regime democratico si governa nonostante la democrazia. La democrazia è in effetti un sistema politico che contrappone costantemente un contropotere a un potere. Quello che ogni tanto scandalizza i decisionisti e li spinge a impegnarsi per forzare certi blocchi e lentezze del sistema non è altro che la normalità, e in ultima analisi, l’essenza della democrazia. Come mi è già capitato di scrivere, sarebbe come se nel pieno della monarchia assoluta qualcuno avesse esclamato: “Eh, ma questo vuole sempre l’ultima parola!”. Pertanto ogni scostamento dal bilanciamento dei poteri, dalla necessità del negoziato e del compromesso all’interno del potere decisionale e dalla proporzionalità nella rappresentanza costituisce un obiettivo allontanamento dal modello: la storia qualche volta esige simili dolorosi trapianti perché il sistema è paralizzato; in altri casi invece essi sono forzature introdotte da parti politiche che mirano a capitalizzare il consenso di cui godono in quella fase, allargando il proprio spazio di potere. È in questa chiave che va letta la proposta di premierato portata avanti da Giorgia Meloni: come sappiamo, si sostanzia nell’elezione diretta del capo del governo, nel (quasi) necessario scioglimento delle camere nel caso che il premier si dimetta o perda la fiducia, nel puntellamento della sua maggioranza con un premio elettorale che garantisca il 55% dei parlamentari. Quest’ultimo profilo, in particolare, è una notevole lesione del principio di rappresentanza proporzionale e, considerando anche il background ideologico del partito di maggioranza, ha fatto evocare con orrore la Legge Acerbo del 1923 introdotta dal governo Mussolini. Il parallelismo storico è grossolano: la legge Acerbo assegnava i due terzi alla lista che avesse fatto meglio delle altre, anche solo con il 25%. Quel che accadde, peraltro, fu che la lista vincente i suoi due terzi se li guadagnò con il 65% dei voti: Mussolini era riuscito infatti a convogliare in un unico “listone” con i suoi fascisti la gran parte degli esponenti liberali. Fu la resa di questi ultimi a spalancare le porte al regime, e a rendere possibile il truce atto che lo inaugurò, l’omicidio del deputato che aveva tenuto un duro discorso contro la legittimità di quell’esito elettorale, Giacomo Matteotti.

La riforma del premierato ha invece parentele prossime con le numerose proposte durante la cosiddetta Seconda Repubblica – la prima delle quali dell’Ulivo (ancorché non formalizzata) nel 1996 – riguardanti un’elezione diretta e con i premi di maggioranza già impiegati nelle elezioni politiche e ancor più con le proposte di eguale premio del 55%, una della Lega e una di Renzi, in passato bocciate dalla Corte Costituzionale. Il terreno insomma ha già ricevuto un certo grado di fertilizzazione. Al premierato si giungerebbe attraverso una riforma costituzionale accompagnata da una legge elettorale ordinaria. Sul piano del discorso pubblico, il premierato dichiara di perseguire uno scopo (la governabilità), di assolvere a un’esigenza democratica (i cittadini possono scegliere chi li governa, come già accade per i Comuni e le Regioni, e se cade il leader che hanno votato si torna alle urne) e propone uno strappo rispetto all’assetto repubblicano (non un semplice premio di maggioranza, cioè un surplus di voti alla coalizione vincente, ma un premio che attribuisce automaticamente la maggioranza).

Allo stato della proposta, il premierato risulta carente rispetto alle premesse e alle promesse. Se il principio guida deve essere quello che il cittadino deve scegliere i suoi rappresentanti, non si capisce perché non si preveda di estenderlo alla scelta dei parlamentari, reintroducendo il voto di preferenza al posto delle liste bloccate; non è vero che le camere verrebbero sciolte solo se cade il premier: la bozza di legge infatti prevede che il premier possa essere sostituito da un leader interno alla coalizione, e sarebbe solo con le dimissioni o la sfiducia riguardanti questo secondo capo del governo (non votato dal popolo) che le camere sarebbero sciolte (si possono quindi immaginare preventivi e segreti accordi di “staffetta” grazie ai quali il leader-bis subentra a metà della durata parlamentare); e quanto alla governabilità, come scriveva il grande politologo Giovanni Sartori “la stabilità della democrazia non è minata da governi instabili ma piuttosto da governi impotenti o dal malgoverno…la durata dei governi non è affatto un indicatore di efficienza o di efficacia, anzi nella maggior parte dei sistemi parlamentari in cui sono necessari governi di coalizione, i governi prolungano la propria sopravvivenza non facendo quasi nulla”. Vero, la riforma proposta evita lo sconcio dei “ribaltoni”, cioè la totale dissociazione tra la maggioranza parlamentare e quella espressa alle urne, e tuttavia persino questa stortura è talvolta risultata un’accettabile uscita di sicurezza rispetto a situazioni di emergenza.

Il premierato non esiste in nessun paese: ha avuto solo esistenza breve e tormentata in Israele. Si tratta in effetti di un’anomalia poiché l’alternativa tra sistemi parlamentari e presidenziali (o semi-presidenziali) riguarda l’elezione parlamentare o diretta del capo dello stato, non del capo del governo. Quando un sistema presidenziale elegge il capo del governo, è perché il capo dello stato è anche capo del governo: ma in quell’ipotesi si guarda bene dall’assicurare una maggioranza artificiale e inossidabile, come dimostra il caso degli Stati Uniti, in cui accade sovente che la maggioranza parlamentare sia di segno opposto a quella del presidente. Che tipo di riforma sarebbe, dunque, questa italiana? Diciamo un sistema presidenziale fortissimo, con la peculiarità che chi lo esercita non è il presidente della repubblica. I poteri del capo dello stato ne escono fortemente ridimensionati: viene di fatto meno la sua prerogativa di contribuire all’indirizzo politico (soprattutto decidendo se sciogliere o meno le camere), esercitata essenzialmente sotto una prospettiva costituzionale. Rimane in piedi una funzione di garanzia, specialmente a supporto dell’indipendenza della magistratura, visto che egli nomina un terzo dei giudici della Corte Costituzionale e presiede le riunioni del CSM. Ma pare evoluzione normale (già prodottasi in altri paesi senza che il sistema costituzionale sia stato apparecchiato allo scopo) che a un certo punto il leader che rappresenta il popolo e da esso è stato eletto si domandi pubblicamente cosa vuole e pretende, e perché si mette in mezzo, quel tizio senza la stessa legittimazione popolare (e quindi non altrettanto idoneo a rappresentare la nazione). E se l’eventuale frizione non finisce in modo cruento, la soluzione più sbrigativa è di mettere in quel posto (con voto del parlamento che il premio di maggioranza ha sovraproporzionato) un fantoccio che faccia quel che vuole la maggioranza, bacchetti pure lui la minoranza e sorrida alle celebrazioni.

Il modo in cui la democrazia, fingendo di diventare più democratica, sta diventando meno democratica è questa dominante tipologia di presidenzialismo (del quale come abbiamo visto il premierato rappresenta una specie): un sistema politico che possiamo definire leadership plebiscitario-elettorale. Si tratta dello spostamento dell’intero assetto politico su una figura carismatica (tale secondo i canoni della brand society: un buon prodotto di marketing piuttosto che un personaggio munito di tratti eccezionali), che progressivamente riassume il suo partito, poi la sua coalizione, poi il governo e infine il paese.

A dire il vero, è già praticamente il destino di un comune stato parlamentare (ultimo episodio nostrano, i leader sulla scheda elettorale delle europee). Ovviamente, una simile fusione tra l’uno e il tutto, con la sua venatura monarchica, assottiglia di parecchio la distanza fra regime democratico e autoritario. Certo, c’è il passaggio per l’elettorato: è un passaggio però sia semplificato (le questioni vengono polarizzate e impostate come ricerca del plebiscito), sia eccessivo (lo sfondo del voto è sempre presente, parcellizzato e risonante nei vari sondaggi, e condiziona sia i ragionamenti che le pose del leader politico), sia difettoso. Difettoso, per due ragioni: la prima è che l’elevato livello di astensione rende puramente retorico dire che un leader rappresenti un paese; benché diamo per scontato che Meloni sia un leader con il consenso nazionale in poppa, non dobbiamo dimenticare che 84 italiani su 100 non l’hanno votata. La seconda è la scarsa qualità della partecipazione democratica: ovvero, una parte impressionante di elettorato attivo si presenta al voto in condizioni di ignoranza o disinformazione ed esaurisce in quel momento la sua partecipazione al buon funzionamento della vita comunitaria.

Se questo già accade nel quotidiano, e genera la pesante crisi di legittimazione in cui versa la democrazia, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un vestito istituzionale che puntelli un simile degrado. Le vie per curarla sono altrove. Che poi la democrazia non debba cadere nella dittatura della maggioranza lo proclamava già Tocqueville. Nel suo ottimo saggio pubblicato da Carocci, L’età della democrazia. L’Europa occidentale dopo il 1945, Martin Conway ricostruisce quanto la democrazia europea del dopoguerra sia stata lungamente caratterizzata dalla collaborazione e dal perpetuo negoziato: il che implicò diversi difetti ma la preservò dalla disgregazione che in quel contesto storico – appena successivo alla guerra e ai totalitarismi e coevo alla guerra fredda – sarebbe stata inevitabile. Rimane valido quanto scrisse trent’anni fa Cindy Skach, nel volume edito da Il Mulino Il fallimento del presidenzialismo, curato da Juan Linz e Arturo Valenzuela: “il sistema chi vince piglia tutto è sconsigliabile quando un sistema politico è polarizzato o caratterizzato da una cultura politica disomogenea…la rappresentanza proporzionale e le coalizioni sono quindi meccanismi essenziali di sicurezza per società difficili”.  Insomma, che il governo (senza ammazzare il parlamento) possa contare su regole che rendano efficace la sua azione non è affatto negativo. E tuttavia non trascurerei il motto premier non nocere.

Dalla democrazia di Atene a quella del web, un atto di accusa verso un regime politico che non riesce più a risollevarsi e mantenere le sue promesse. Una revisione radicale dei concetti di libertà, eguaglianza e giustizia, contro ogni ipocrisia, per salvare l’ideale della democrazia mediante una serie di soluzioni rivoluzionarie senza passare per la rivoluzione. Un tentativo di riconciliare i cittadini e gli stati (entrambi oggi assai lacunosi) nel segno di una nuova democrazia partecipativa responsabile.

Intervista audio

Di |2024-07-19T09:54:26+01:007 Giugno 2024|7, Limite di velocità|

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