Chiediti se sei un fallito

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È una parola rimasta immune alla tagliola della grammatica di genere. Non si legge né si ascolta mai di una fallita. Al contrario, di questo o quell’uomo si sussurra o grida velenosamente che sia un fallito, e lui stesso ne è convinto. Dietro la negatività di una simile esclusiva si cela un tranello: se davvero a connotare il fallito è il divario tra le aspettative di successo e il fiasco che le segue, è ovvio che si tratti di una disgrazia maturata in una società di ideologia competitiva maschile, ai vertici della quale siedono maschi. A una donna, al massimo, capita di essere accusata di fallimento come madre o come moglie (a casa, come le compete), e secondo questa prospettiva rimuginare sensi di colpa e di inadeguatezza (salvo in un noto caso limite, nel quale l’amante la eleva a colei “che per sua natura i fallimenti attirerà”).

Essere un fallito non conosce soltanto una limitazione per sesso, ma pure per classe. Massimo Fini, trent’anni fa, lo esplicitava in un suo libro esageratamente antimodernista e tuttavia molto bello, “La ragione aveva torto”, lamentando che la spasmodica corsa al successo pubblico indotta dall’anonimato abbia preso il posto di relazioni più anguste e costrittive ma più intense: “Oggi l’adulto prova presto o tardi il sentimento di aver fallito, il sentimento che la sua vita di adulto non ha realizzato nessuna delle promesse della sua adolescenza. Questo sentimento è all’origine del clima di depressione che si diffonde nelle classi agiate delle società industriali”. In questo senso poter fallire è un lusso, precluso all’operaio logorato o estromesso dalla fabbrica oppure all’immigrato clandestino che si rimpannuccia di notte in un angolo di marciapiede e magari aveva conseguito una laurea nel suo paese. Le loro tipologie, al più, evocano rispettivamente l’alienazione e la disperazione.

Lo storico Scott Sandage colloca in effetti l’origine della parola “fallimento” nel linguaggio economico americano, circoscritta a chi non aveva modo di riscattare i propri debiti. Solo successivamente si estese a giudizio biografico con sottinteso morale. Un’evoluzione non sorprendente, se riflettiamo con Max Weber sul fatto che l’etica calvinista del lavoro identificava il rovescio economico con la mancata predestinazione della grazia divina. Sulla stessa scia, diventa perverso eppure conseguenziale che il fallimento non sia un evento che accade ma uno stato della persona.

Negli ultimi dieci anni, tuttavia, spira un vento contrario che nega ontologicamente l’esistenza del fallimento. Persino la legge purga i suoi codici da questa figura così (negativamente) paradigmatica del diritto commerciale: il nuovo codice della crisi italiano, oltre a moltiplicare le procedure di composizione volte a scongiurare il completamento del dissesto e a ridurne l’effetto sanzionatorio-prognostico per il futuro, cassa completamente la parola. Al tempo stesso, in pubblicazioni dal ritmo serrato il fallimento viene denunciato quale impostura sociale prodotta dal capitalismo, specialmente tecnologico (Fallimento di Appadurai), insignito di una patente di nobiltà (ben due versioni di Elogio del fallimento, una dell’instancabile Massimo Recalcati, l’altra del filosofo romeno-americano Costica Bradatan) e posto al centro di quella forma di cura e assistenza manageriale e/o psicologica che è il coaching. L’industria culturale fiuta che l’onta e il disdoro hanno virato verso una pruriginosa benevolenza, e inonda il mercato editoriale, cinematografico e televisivo di storie autobiografiche, nelle quali il fallimento del protagonista non è monito sinistro bensì tessera ineludibile dentro un puzzle esistenziale che di esso ha bisogno per completarsi nell’apprendimento e nel riscatto.

Circola incessante, sopra ogni refolo di sofferente scacco, il mantra che rimbomba in ogni anfratto dell’ultimo decennio: trasforma la tua crisi in un’opportunità!  

 

Il gioco però, contiene a sua volta un trucco, quello di estendere il concetto di fallimento a un qualsiasi passo falso, inciampo, rovescio, sconfitta, frustrazione, delusione, banalizzarlo in quel qualcosa che non ha funzionato. Recalcati, ad esempio, fa coincidere il fallimento nientemeno che con l’errore e la sua correzione in un percorso di formazione degli adolescenti (tirando per la giacchetta la nozione di erranza del cammino in Hegel). Appadurai (con la concausa di una dilagante polisemia dell’inglese failure) mescola nel fallimento il tracollo d’impresa, il naufragio di un progetto di vita, la disfunzione di un apparecchio. Il coaching proclama: non devi pensare di essere un fallito! E tutti in coro rassicurano che dai fallimenti si impara.

Ma l’imprenditore che fallisce è uno che ha sospeso per forza l’attività e ha portato i libri in tribunale, mica gli è girato male un contratto o gli si sono licenziati tre dipendenti. Che senso ha confondere un termine drammatico e liquidatorio come “fallimento” con l’errore e la sconfitta? La maratona la corrono in 10.000 e non ci sono 9.999 falliti al traguardo. Si dirà che per alcuni è un successo già averla terminata: però tanti pensavano di finirla dieci minuti prima e cinquanta posizioni avanti. La prossima volta amministreranno con più esperienza le forze, e lo studente che non ha passato l’esame si preparerà con maggior dovizia. Chi ha mai dubitato di questo, almeno in termini teorici?  La gran parte dei fallimenti, in sostanza, è un’invenzione di mercato di coloro che vendono la capacità di superarli. Bradatan ci informa che i rumeni hanno un numero abnorme di parole per il fallimento, quante gli inuit ne possiedono per la neve, e l’approccio alla vita che ne discende sembra più ironico e sdrammatizzante. Si suole dire che l’insegnamento lasciato dal fallimento ha a che vedere con l’umiltà. Tuttavia, sentirsi falliti per un nonnulla, o per il comune alternarsi del fato, è una bella forma di presunzione.

Il concetto di fallimento non ha senso tutte le volte che un esito negativo è ancora in tempo ad essere ribaltato; si affaccia quando sembra che le prove sono (o sembrano) finite, e il risultato assume un marchio definitivo. E non basta: il fallimento può chiamarsi pertinentemente in causa solo quando le aspettative e le aspirazioni rimangono frustrate in una situazione che la persona ha assunto come totalizzante, coincidente con il senso stesso della sua vita, come se si trattasse di una vocazione. Non lo definirei un sentimento riprovevole, e non vedo perché dovremmo ritenere più consona alla condizione umana l’alzata di spalle di chi transita con indifferenza da uno scopo all’altro e da una relazione all’altra, senza mai attaccarsi profondamente a nulla, come se tutto e tutti fossero fungibili.

Il vero problema è che un numero cospicuo della casistica non riguarda l’essere (come dovrebbe, secondo la definizione che ho appena dato) bensì l’apparire. Non solo il senso della vita si attacca a questioni esageratamente mondane e futili (se non rappresentano il mezzo per uno scopo più significativo) quali l’arricchimento economico o la conquista di un posto di potere: siccome il godimento dell’individuo deriva dal riconoscimento pubblico, il fallimento non esiste fino a quando non viene scoperto. Non è raro rimanere stupiti da certe storie in cui la persona incappata pubblicamente nel fallimento, esibiva fino al giorno prima un posticcio splendore: come se il rinforzo della maschera pubblica potesse funzionare da esorcismo per allontanare il momento della resa dei conti. Trovo quindi sbagliata la frequente affermazione che il fallimento sia contraddistinto da un eccesso dell’Io: emerge piuttosto un eccesso di loro, cioè un’eccessiva dipendenza dal giudizio altrui e di conseguenza la costruzione dell’esistenza sulle friabili fondamenta del conformismo e dell’ipocrisia.

Se lo scopo a cui ci si è attaccati appartiene all’impegno in misura almeno pari al desiderio, il fallimento esce dal campo del successo per entrare in quello della responsabilità. Verso gli altri, un po’ verso sé stessi. Percepirlo e soffrirne, in tal caso, non lede la nostra umanità, la rende più degna.

Cosa succede dopo il fallimento? Non è detto che avere un piano B sia un’uscita di cui vantarsi. La cosa più importante è salvare dentro il fallimento tutte le cose che non sono fallite (i momenti da serbare alla memoria, i figli nati da un matrimonio infelice, i progressi interiori che l’esperienza ha determinato, gli sforzi per impedirlo). Un pezzo per volta, il fallimento è facile da ridimensionare.

Nello splendido film realizzato nel 1986 da Roland Joffe, Mission, viene ripresa e romanzata una storia vera del Sudamerica settecentesco, svoltasi nella foresta pluviale sopra le cascate dell’Iguazù; là i gesuiti spagnoli cercavano di convertire al cattolicesimo le tribù indios locali, secondo la versione migliore dello spirito di carità cristiano: agendo operosamente per costruire con loro un villaggio e sottrarli al destino di schiavitù nelle piantagioni. Alla guida del gruppo c’è Padre Gabriel (interpretato da Jeremy Irons); il suo braccio destro, Rodrigo Mendoza (Robert De Niro) è un ex turbolento e prepotente cacciatore di schiavi che si è imposto un voto di mortificazione; ed è infine rimasto folgorato dalla convinzione che la salvezza della propria anima sia strettamente connessa alla salvezza di quei corpi- prima che anime- che hanno preso in cura. Ai latifondisti europei però le terre fanno gola, e così i governi spagnoli e portoghesi ingiungono all’Ordine dei Gesuiti di sgombrarle mentre gli eserciti delle due nazioni si accingono a occuparle. L’Ordine, minacciato perfino nella sua esistenza, comanda ai missionari di rientrare in patria. Padre Gabriel e i suoi non se la sentono di far passare per un cumulo di frescacce gli insegnamenti e la speranza che hanno trasmesso ai Guaranì: decidono quindi di disubbidire e di aiutarli nella difesa della terra. Ciascuno si affida ai mezzi con cui ha maggiore confidenza: Mendoza (ora Padre Rodrigo) rispolvera l’attitudine militare, Padre Gabriel non si discosta dalla linea della non violenza e consolida la priorità della preghiera. La resistenza è generosa e illude, ma troppa è la sproporzione delle forze: Mendoza, colpito a morte (mentre stava per far saltare il ponte attraversato dai portoghesi ha preferito mettere in salvo la vita di un bambino) ha il tempo di assistere, durante l’agonia, alla processione degli indios in uscita dalla messa, con in testa Padre Gabriel. Non vuole, non può morire prima di sapere se la preghiera fosse realmente la strada da percorrere per opporsi con successo: e davvero per un tratto di cammino il corteo pare invulnerabile al fuoco nemico. Mendoza spira quando ha constatato che la preghiera è altrettanto inane, spira con la desolazione del fallimento, o forse con il sollievo che al fallimento non ci sia scampo. Ma quello di Padre Gabriel e Padre Rodrigo è davvero un fallimento? O la dedizione a un fine trascendente (certo, senza dimenticare le trappole in cui a sua volta attira) impedisce per definizione il fallimento? Monsignor Altamirano, intermediario del messaggio dei vertici gesuiti, riepilogando come voce narrante, non ha dubbi sul fatto che quel sacrifico rappresenti un’epopea, e che l’onta del fallimento cada su lui, sull’Ordine dei Gesuiti, sulla Chiesa, sulla civiltà europea: anche se in linea di principio, il fallimento nella difesa dei Guaranì era un dazio da pagare per evitare altri fallimenti in luoghi egualmente presidiati dai missionari. Il compromesso è sovente una necessità a tutela del futuro: ma rappresentando, con altrettanta frequenza, una bancarotta morale, lascia impresso su quello stesso futuro un indelebile segno di corruzione.

Mission, oscillando tra i macrolivelli della geopolitica e del colonialismo e le microfibre della significanza nelle relazioni personali, ci ricorda che dietro ogni fallimento c’è uno sfondo che l’ha reso possibile. Attenzione: ha reso possibile quel fallimento piuttosto che un altro. Come scrive Bradatan, “ci dedichiamo al fallimento per tutte le giornate della nostra esistenza e poi lo passiamo alle generazioni successive”. Il fallimento è la proiezione sugli individui della costitutiva imperfezione del mondo, della sua continua mutevolezza che in intervalli di tempo mai esageratamente lunghi rende sbagliato ogni approccio che aveva ben funzionato, per altri, in altri luoghi e per la stessa persona. Insistere nel successo non è meno azzardato che persistere nell’errore. Non a caso stendere un bilancio per chiedersi ho fallito? espone a una giocata casuale come una puntata alla roulette, offrendo un riscontro differente a seconda del momento. Forse se Mozart fosse vissuto fino a ottant’anni sarebbe annegato in una serie di fallimenti tale da offuscare per sempre i suoi capolavori e la sua innovazione. Peraltro già la sua reale biografia gli servì a fine pasto la crisi di pubblico e il dissesto finanziario. I riconoscimenti postumi di tanti personaggi della storia mostrano come sarebbe precluso persino a un cadavere di trarre conclusioni affrettate riguardo al proprio fallimento.

Il fallimento, d’altronde, odora della testa. Il biblista Sergio Quinzio scrisse nel 1992 un sofferto testo, “La sconfitta di Dio”, intitolando un capitolo “Una storia di fallimenti”. “La Bibbia (…) colpisce anzitutto come la registrazione di vicende fallimentari (…) il terzo dei cinquanta capitoli in cui è stata suddivisa la Genesi contiene il racconto della colpa dei progenitori e della loro condanna alla tribolazione e alla morte, il quarto è già quello di Caino e di Abele e con il sesto comincia il diluvio universale”…e giù con il resto. E l’avvento del Regno dei Giusti? Quinzio rammenta come nel Nuovo Testamento sia ripetuto che siamo giunti all’ultima ora della storia del mondo, Giacomo annuncia ai ricchi di piangere per le sciagure che stanno per colpirli. In effetti duemila anni cominciano a sembrare troppi per un semplice prolungamento della suspense. Le cosmologie gnostiche erano feroci nell’attribuire al Demiurgo se non malvagità quanto meno incompetenza e disorganizzazione. Forse anche Dio- come tante sue creature- è stato sfavorevolmente penalizzato dal tempo, quei sei giorni risicati per un mondo, e chissà che il riposo del settimo non sia stato un pretesto per squagliarsela e non assistere al degrado. E pensare che nessuno gli stava col fiato sul collo, neppure i creditori.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Di |2024-07-19T09:55:14+01:0024 Maggio 2024|9, Motori di ricerca interiore|

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