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Questa sezione raccoglie in primo luogo le “aperture” del sito che sono quasi sempre progetti a partecipazione collettiva esterna. Trovate inoltre le auto-presentazioni di altri siti web (oppure dei post trasposti dai medesimi). Sono quelli che, ritenendoli per qualche ragione interessanti, ho contattato con una proposta: scambiarsi uno spazio per una settimana, con la dichiarata utilità di farci conoscere dai reciproci pubblici e il più largo proposito di indirizzare i navigatori del web verso promotori culturali. Infine, può capitare di trovare in Open Space qualche intervento esterno non inquadrabile in altre sezioni e che però mi intrigava ospitare.

Il sentimento tragico della vita di Miguel De Unamuno

Di |2020-12-15T13:43:36+01:0015 Dicembre 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

L’intelligenza è un dono terribile. Tende alla morte, come la memoria tende alla stabilità. Dio che è vivo, l’assolutamente instabile, l’assolutamente individuale, è, a rigor di termini, inintelligibile. La logica tende a ridurre tutto a identità e a generi, affinché ogni rappresentazione abbia un unico e identico contenuto in qualunque luogo, tempo o relazione essa ci si presenti. Non c’è alcuna cosa che sia la stessa in due momenti successivi della sua esistenza. La mia idea di Dio è diversa ogni volta che la formulo. L’identità, che è la morte, è l’aspirazione dell’intelletto. La mente ricerca ciò che è morto, giacché ciò che è vivo le sfugge; vuole solidificare in lastre la corrente fluente, vuole fissarla. Per analizzare un corpo bisogna menomarlo o distruggerlo. Per comprendere qualcosa, bisogna ucciderla, irrigidirla nella mente. La scienza è un cimitero di idee morte, sebbene da essa possa scaturire la vita. Anche i vermi si nutrono di cadaveri. I miei stessi pensieri, tumultuosi e agitati nelle cavità della mia mente, strappati dalla loro radice cordiale, riversati su questo foglio e fissati su di esso in forma inalterabile, sono già pensieri diventati cadaveri. Come può dunque la ragione aprirsi alla rivelazione della vita? È una tragica lotta, è il fondo della tragedia, la lotta della vita con la ragione. E la verità? Si vive o si comprende?

Brano da Miguel De Unamuno, Il sentimento tragico della vita, 1913

Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale

Di |2020-10-16T10:52:24+01:0016 Ottobre 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Si agisce nel modo migliore se si separa a tal punto l’artista dall’opera sua, da non prenderlo altrettanto sul serio quanto la sua opera. In fin dei conti costui altro non è che una condizione preliminare della sua opera, il grembo materno, il terreno, talora il concio e lo sterco sul quale e dal quale essa cresce e quindi, nella maggior parte dei casi, qualcosa che si deve dimenticare se si vuol prendere diletto dell’opera in se stessa. L’indagine sull’origine di un’opera riguarda i fisiologi e i vivisettori dello spirito: mai e poi mai gli esteti, gli artisti! (…) Ci si deve guardare dalla confusione nella quale incappa troppo spesso l’artista, come se fosse lui stesso quel che egli può rappresentare, concepire, esprimere. Il fatto è che se egli fosse tutto questo, non potrebbe rappresentarlo, concepirlo, esprimerlo; se Omero fosse stato Achille e Goethe Faust, un Omero non avrebbe creato Achille e Goethe non avrebbe creato Faust.

Nietzsche, Genealogia della morale

Erasmo da Rotterdam, La felicità è quel che si crede

Di |2020-10-02T14:54:44+01:002 Ottobre 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Lasciarsi ingannare, dicono, è una sventura. Invece, la più grande delle sventure è non lasciarsi ingannare. Insensati sono quelli che pensano che la felicità umana dipenda dalle cose stesse, mentre invece tutto sta in come si pensa. Delle cose umane è così grande la varietà e l’oscurità che nulla si può conoscere chiaramente, e se pur qualcosa si può conoscere non di rado offusca la serenità della vita. L’animo umano è così formato che si lascia accalappiare più dal belletto che dalla verità. Volete vedere una prova chiara e lampante? Andate in chiesa: se si narra qualcosa di servi, tutti a sonnecchiare, sbadigliare, seccarsi; ma se quello strillone, ho detto male, quell’oratore, come di solito, comincia con una favoletta da vecchie, ecco che si destano, si raddrizzano, stanno a bocca aperta. Se si stratta poi di qualche bel santo leggendario e poetico, vedrete che costui è adorato molto più religiosamente di San Pietro, San Paolo e financo di Cristo.

Questa forma di felicità non costa molto davvero! Laddove le cose, anche se di scarso peso come la grammatica, a volte non si acquistano che con grande fatica. Invece un’idea a modo tuo è presto fatta, ma contribuisce alla felicità quanto le cose stesse o anche di più. Se uno per esempio si nutre di pesce in salamoia andato a male, mentre gli altri non ne potrebbero sopportare nemmeno il tanfo, e gli par di mangiare ambrosia, che cosa manca alla sua felicità? e se uno ha una moglie brutta da far paura, e al marito invece par che possa entrare in gara con Venere stessa, non è lo stesso che se fosse veramente bella?

Conosco uno che alla sua giovane sposa regalò delle gemme false, dandole a intendere che erano vere e genuine, e anche di valore singolare, straordinario. Cosa mancava alla donna che pasceva i suoi occhi e il suo cuore di quei vetri e non ne traeva minor gioia, cosa le mancava a tenere serbate presso di sé delle sciocchezzuole né più né meno di un tesoro straordinario? Il marito intanto non solo evitava la bella spesa, ma si spassava all’inganno della moglie, né per questo l’aveva meno obbligata che se le avesse fatto regali costosissimi. Credete che vi sia differenza fra coloro che, rinchiusi in un antro, come immaginò Platone,  della varietà delle cose stanno ad ammirare le ombre e le immagini e quel sapiente il quale, uscito dall’antro, può guardare le cose nella loro realtà?

Brano tratto dal libro “Elogio della pazzia” di Erasmo da Rotterdam

Brano da Saggio sull’uomo di Ernst Cassirer

Di |2020-09-18T17:02:42+01:0018 Settembre 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Ciò che caratterizza la mentalità primitiva non è la logica ma il suo sentimento generale della vita. Il primitivo non guarda la natura con gli stessi occhi del naturalista che vuole classificare ogni cosa per soddisfare una curiosità intellettuale. Non si avvicina ad essa con interesse puramente pragmatico e tecnico. Per lui, la natura non è un mero oggetto della conoscenza né il campo dove cercare di soddisfare le sue necessità pratiche immediate. Ci si è abituati a dividere la vita in due sfere, nella sfera dell’attività pratica e in quella dell’attività teoretica. Questa divisione ci ha fatto dimenticare che sotto all’una e all’altra vi è uno strato più profondo. Invece il primitivo non lo dimentica. Tutti i suoi pensieri e i suoi sentimenti hanno ancora radice in quel substrato originario. La sua visione della natura non è né teoretica né pratica; essa è una visione “simpatica”. Se non si tiene presente questo punto, l’accesso al mondo mitico ci resterà chiuso. La caratteristica fondamentale del mito non è uno speciale orientamento del pensiero o dell’immaginazione. Il mito scaturisce dall’emozione, per cui un fondo emotivo dà un particolare colore ad ogni sua creazione. Al primitivo non manca affatto la capacità di percepire le differenze empiriche fra le cose, ma nella sua concezione della natura e della vita tutte quelle differenze sono cancellate da un più vivo sentimento, da una insopprimibile solidarietà di vita. Il primitivo non si arroga una posizione unica e privilegiata nell’insieme della natura. La parentela di tutte le forme della vita sembra essere il presupposto generale del pensiero mitico.

Brano da “Saggio sull’uomo”, Ernst Cassirer, 1971

La pubertà permanente. Johan Huizinga

Di |2020-09-11T20:04:48+01:0011 Settembre 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Nelle fasi primitive della civiltà una gran parte della vita sociale si esprimeva in forma di gioco, e cioè in una temporanea limitazione dell’umana condotta secondo norme liberamente riconosciute. Una rappresentazione stilizzata sostituisce di tanto in tanto l’aspirazione all’utile o all’appagamento (…).

Il carattere essenziale che vale per ogni gioco – sia esso culto, rappresentazione, gara o sagra – sta in ciò, che a un determinato istante esso finisce. Gli spettatori vanno a casa, gli attori depongono la maschera, la rappresentazione è finita. Ed ecco rivelarsi a questo punto la menzogna del nostro tempo: il gioco in certi casi non finisce mai, non è dunque un vero gioco. È avvenuta una vasta contaminazione di gioco e di serietà: le due sfere si confondono. Negli spettacoli che vogliono passare per seri c’è, nascosto e insidioso, un elemento di gioco. Il sedicente gioco, data l’eccessiva organizzazione tecnica e l’importanza cui assurge agli occhi di tutti, non può più affermarsi schiettamente come gioco, ha perduto i caratteri indispensabili di rapimento, di naturalezza, di giocondità. (…)

In infiniti uomini colti o incolti l’atteggiamento di gioco di fronte alla vita, che è proprio del fanciullo, diventa permanente. È uno stato d’animo universale che si potrebbe chiamare di permanente pubertà. Esso si distingue per una mancanza di sensibilità rispetto a quello che è conveniente e umano, per una mancanza di dignità personale, di rispetto verso gli altri e le altrui opinioni, per un’eccessiva concentrazione nella propria personalità. L’universale indebolimento del giudizio e della critica crea il suolo propizio a questa condizione. La massa si trova a suo perfetto agio in uno stato di semilibera esaltazione.

Meraviglia e preoccupa che il formarsi di un tale stato d’animo non solo sia preparato dallo scarso bisogno di giudizio personale, dall’azione livellatrice dell’organizzazione a gruppi, la quale fornisce un corredo di opinioni belle e pronte, dalla distrazione varia e superficiale messa continuamente alla nostra portata, ma venga provocato ed alimentato anche dal prodigioso sviluppo della tecnica.

Johan Huizinga, La crisi della civiltà, 1937

Foto tratta da pinkblog

Anche gli eroi passano di moda. William Shakespeare (da “Troilo e Cressida”)

Di |2020-09-11T15:17:17+01:0031 Luglio 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

(discorso rivolto da Ulisse ad Achille)

 

Signore, il tempo, enorme mostro di ingratitudine

ha una scarsella sulla schiena dove mette le elemosine

per dimenticarle. Quegli scarti sono le buone azioni passate,

che vengono consumate mentre si compiono e dimenticate

appena fatte. È la perseveranza, signor mio,

che mantiene lustro l’onore: avere fatto è rimanersene

appesi lì, fuori moda, come un’armatura arrugginita

in irrisoria monumentalità. Prendete subito la via che si offre

perché la gloria cammina su un sentiero così stretto

che di fronte ci si passa solo per uno. E tenete bene il sentiero,

perché l’emulazione ha mille figli

che si incalzano l’un l’altro. Se date il passaggio,

o sbandate dalla giusta direzione,

si avventano tutti come marea irrompente

e vi lasciano per ultimo;

oppure, come il cavallo generoso caduto in prima fila,

eccovi lì a far da terra battuta alla vile retroguardia,

travolto e calpestato: perché le loro azioni attuali,

quantunque inferiori alle passate vostre, fatalmente le superano;

il tempo infatti è un padrone di casa mondano

che stringe distrattamente la mano all’ospite che se ne va

e accoglie il nuovo arrivato spalancando le braccia

come per spiccare il volo: il benvenuto sorride sempre

e l’addio se ne va sospirando. Oh, la virtù non deve aspettarsi

ricompensa per ciò che era; perché bellezza, intelligenza, nobiltà di nascita,

vigoria fisica, merito conquistato in servizio,

amore, amicizia, carità, tutto è soggetto

all’invidioso e calunnioso tempo.

Nell’indole degli uomini c’è questo di comune:

che tutti impazziscono per gli articoli di nuova fabbricazione,

benché ricavati e imitati dai vecchi prodotti,

e lodano la polvere appena un po’ dorata

più dell’oro impolverato. L’occhio presente

apprezza l’oggetto presente: dunque non ti stupire,

tu uomo grande e completo, se i Greci cominciano

a idoleggiare Aiace; le cose in movimento

attirano l’occhio prima delle immobili.

Un tempo l’urlo era per te, e potrebbe

esserlo ancora, e può esserlo sempre,

se non ti sotterri vivo e non richiudi

la tua fama nella tua tenda, tu, le cui imprese gloriose

ancora di recente su questi campi

hanno suscitato

l’emulazione degli stessi Dei e trascinato il grande Marte

a prendere partito.

Cosa significa scegliere. Aristotele, dall’Etica Nicomachea

Di |2020-09-11T15:17:18+01:0024 Luglio 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Dopo aver definito il volontario e l’involontario, di seguito si deve analizzare la scelta: essa pare strettamente connessa con la virtù, e permette di giudicare i caratteri ancora più delle azioni. La scelta non è identica al volontario, perché ha una maggiore estensione: infatti anche i fanciulli e gli altri animali hanno a che fare con ciò che è volontario, mentre la scelta è cosa a loro estranea; poi noi diciamo volontari gli atti improvvisi, ma non li diciamo frutto di una scelta.

Quelli che dicono che la scelta è desiderio, impulso, volere o una qualche forma di opinione, non ci pare che si esprimano correttamente. Infatti la scelta non si trova anche negli animali irrazionali, ma impulso e desiderio sì. Chi non si sa dominare agisce per desiderio, ma non secondo una scelta, mentre chi si domina agisce per scelta, ma non per desiderio. E il desiderio riguarda il piacere e il dolore, mentre la scelta non riguarda né piacere né dolore.

La scelta non è nemmeno volere, sebbene sia evidente che è della stessa specie: non si dà infatti scelta delle cose impossibili, e se uno affermasse di sceglierle sembrerebbe un insensato. Invece si dà volere degli impossibili, per esempio dell’immortalità. E mentre il volere riguarda anche le cose che non vengono compiute da chi le vuole, per esempio che un certo atleta vinca la gara, nessuno sceglie cose simili, ma ognuno sceglie quelle che ritiene dipendere la lui. Inoltre il volere è soprattutto relativo al fine, mentre la scelta di ciò che porta al fine; per esempio: vogliamo essere sani, vogliamo essere felici, e questo possiamo dirlo, ma non è corretto dire: scegliamo di essere felici; in generale infatti sembra che la scelta riguardi quello che dipende da noi.

Perciò la scelta non sarà nemmeno opinione. Infatti l’opinione pare che sia rivolta a ogni oggetto, alle cose eterne e a quelle impossibili non meno che a quelle che dipendono da noi; e si divide con il criterio del vero e falso, non con il criterio del bene e male, mentre la scelta si divide soprattutto in base a questi.  Noi diventiamo persone buone o cattive attraverso lo scegliere i beni o i mali, e non per il fatto di avere certe opinioni. Inoltre la scelta è lodata per avere per oggetto ciò che si deve, mente l’opinione è lodata per essere vera. E mentre scegliamo ciò che sappiamo bene che è buono, abbiamo opinioni anche su cose di cui non abbiamo alcun sapere. Non pare che siano gli stessi a scegliere le cose migliori e ad avere delle opinioni su di esse; al contrario vi è chi ha opinioni notevolmente buone ma, a causa dei suoi vizi, sceglie ciò che non deve. Cos’è dunque la scelta, e di che specie è dato che non è nessuna delle cose che abbiamo detto? È certo evidente che è una cosa volontaria, ma non tutto ciò che è volontario è un oggetto di scelta.

O forse è ciò che è stato già deliberato? Infatti la scelta è unita a ragionamento e pensiero. Anche il nome sembra indicare quello che viene scelto invece che altre cose.

Il laboratorio della vita di Carlo Flamigni

Di |2020-09-11T15:17:18+01:0010 Luglio 2020|Open space|

Carlo Flamigni è stato una delle persone più intelligenti, colte e generose che ho conosciuto. E’ stato, oltre che un luminare della medicina, un intellettuale a tutto tondo, un idealista e innovatore sociale, un paladino dei diritti delle donne e un ottimo narratore. Voglio qui ricordarlo con l’apertura in home dedicata a quel “laboratorio della vita” a cui ha consacrato se stesso e con due sue recensioni, una sul check up, pubblicata su Giudizio Universale, e l’altra sulla prostituzione, tratta dalla “Guida al corpo della donna”, edita sempre da Giudizio Universale. Della rivista fu un assiduo collaboratore, e si oppose fermamente a ogni tentativo di retribuirlo. Non lo sentivo da molti anni e la sua morte, il 5 luglio 2020, mi ha fatto pensare alla leggerezza stupida e irrecuperabile con la quale si rinvia per sempre una telefonata di saluto o un incontro in più con una persona straordinaria.

Insalata di salute

Un controllo generale, una serie di accertamenti e via, come quando si fa il tagliando all’auto. Il check-up è l’illusione della prevenzione: perché molte analisi sono inutili. Parola di medico

 

Sono laureato in medicina da tanto tempo che non sono nemmeno sicuro che la mia laurea abbia ancora validità legale (scadono?). Penso dunque di aver avuto il tempo di farmi un’opinione della medicina in generale, dei medici e dei laboratori, e non è poi che ne pensi tanto bene; la medicina ha uno statuto scientifico fragile ed è troppo spesso empirica e fallace; i laboratori utilizzano una congerie di tecniche non sempre utili che danno risultati non sempre comprensibili e non sempre corretti.

 

Dovrei, a questo punto, parlare dei medici, visto che sono loro a chiedere al laboratorio tutti questi esami, ma il ragionamento sarebbe troppo lungo e altrettanto complesso, lasciate che lo rinvii ad una prossima occasione. Questa premessa mi è indispensabile per giustificare il giudizio negativo che do non tanto del check-up come organizzazione sanitaria, quanto del principio che lo ispira; a parte il fatto, per niente secondario, che tra questi ”centri per il controllo della salute generale” c’è un po’ di tutto, nel bene e nel male, una inevitabile conseguenza della medicina commerciale e senza controllo nella quale siamo costretti a cercare il bandolo di quella matassa ingarbugliata che è la nostra salute.

 

L’idea che ha motivato la nascita di questo pullulare di centri medici che promettono di verificare a fondo lo stato di salute dei cittadini (la terminologia utilizzata è quasi sempre quella che si usa per le automobili: venite a fare un tagliando!) è, a prima vista, condivisibile: una bella revisione del motore, un attento controllo della carrozzeria e delle ruote e si esce come nuovi, nessun timore per almeno un anno, fino al prossimo controllo: questa, signori, e prevenzione!

 

Col cavolo che questa e prevenzione, e ci rimetto il punto esclamativo! La prevenzione è, soprattutto, cultura: è igiene di vita, alimentazione corretta, esercizio fisico, niente fumo e poco alcool. Ha i suoi rischi (ad esempio e mortalmente noiosa) ma ha i suoi straordinari vantaggi. Certo piacerebbe anche a me: una vita da bohemien, a tutta velocità, un check-up una volta l’anno, via cosi, imperterrito, fino ai 90 anni. Purtroppo non è cosi: i fumatori che fanno una radiografia dei polmoni tutti gli anni e quelli che non la fanno mai ci lasciano più o meno nello stesso giorno. La sola differenza che ci trovo e che se sai con qualche anno d’anticipo che hai cominciato a morire, ti sei rovinato anche quell’ultimo periodo della vita, prima dell’arrivo della tosse.

 

ll reparto della Stretta di Mano

 

Dunque, un buon ”tagliando personale”, la serie di controlli che scava nelle profondità del tuo corpo per salvarti la vita, in realtà serve ben poco: se fosse utile a salvare molte vite, ad allungarle di un numero significativo di anni, tutti i cittadini avrebbero il diritto di chiedere allo Stato di organizzarne uno per loro: perbacco, gli direbbero, perché solo ai ricchi? Dove sta la tua tanto vantata equità? E noi? Ma le cose non stanno cosi, e lo Stato ha vita facile: chiama in causa gli epidemiologi, quelli che sono chiamati a stabilire i costi e i benefici d’ogni singola attività sanitaria, e sa che loro dicono che il check-up, quello mastodontico e mirabolante del quale sto parlando (venite a fare il tagliando!) non è utile. O meglio, forse è utile ai ricchi. Ma loro hanno una biologia diversa, una salute che gode ad ogni prelievo di sangue e rifiorisce ad ogni rettoscopia.

 

È lecito che qualcuno mi chieda come mai questi centri abbiano tanto successo, cosa facile da desumere dal fatto che ce ne sono tanti in giro. Ebbene, anzitutto forniscono un alibi consistente ai pigri, agli indaffarati, ai distratti, a quelli che non hanno mai il tempo di passare dal dentista (e prima o poi finiscono in dentiera), illudendoli che e possibile cavarsela con un giorno di full immersion, costerà un po’, ma vale la pena. E poi, diciamocelo, c’è in giro un gran bisogno di medicina, ma di una medicina diversa di quella che ci viene ammannita, più affettuosa, consolatoria, rassicurante, 200 esami di laboratorio e solo cinque che non vanno bene, anche questa volta la sfangheremo. E se ci aggiungo un po’ di saporito condimento scientifico? Faccio una scommessa con voi: lasciatemi aprire, nel mio vecchio ma famoso ospedale, un reparto assolutamente improbabile (chiamiamolo Servizio di Fisiopatologia della Stretta di Mano con 50 letti e tre ambulatori) e lo riempio in sei mesi.

 

Se avessi tempo e spazio potrei farvi un elenco dettagliato degli esami che dovreste evitare, separando quelli inutili da quelli prevalentemente sbagliati, e l’elenco più lungo riguarderebbe quelli che i medici o non capiscono o non conoscono, comunque non leggono mai. Conosco esami sulla fertilità che sono cari come il silfio e dei quali non è mai stata riconosciuta la validità, e altri che l’Oms ha ripetutamente chiesto di non fare più, perché fanno solo confusione: posso dire che è vero, almeno sul mio tavolo fanno confusione, ogni coppia di pazienti me ne porta un paio. Solo un esempio delle mie personali perplessità: gli esami post-coitali sono stati sconsigliati molte volte dalle associazioni mediche perché ritenuti inutili; gli spermiogrammi sembrano molto spesso lettere minatorie scritte da un analfabeta e molti laboratori usano ancora standard abbandonati da almeno 30 anni; il test di tossicità embrionale ha, di notevole, soltanto il costo, una vera follia; e sfido chiunque a spiegarmi a cosa si riferisce l’indice di Stoppardi (a me sembra che abbia a che fare con la sindrome del Leotta, ma potrebbe anche essere la sindrome del Solieri; chissà!).

 

Per concludere. Mi piacerebbe ritornare alla vecchia medicina “del malato”, quella che i medici di un tempo esercitavano senza neppure saperlo e nella quale impegnavano le loro virtù, piccole o grandi che fossero.  Quella che oggi ci propinano e la medicina ”della malattia”, contrattuale e commerciale, che non si occupa delle persone, che ritiene che una dichiarazione di competenza valga quanto una dimostrazione di compassione e che di virtù ne mette in campo ben poche. E il silenzio delle virtù genera check- up.

Prostituzione

Proviamo a partire dai numeri. In Italia ci sono attualmente più o meno 70.000 prostitute, 15.000 delle quali sono minorenne. Le prostitute straniere sono più di 30.000 (nigeriane, albanesi, polacche, bielorusse e chissà cos’altro) e si contano circa 5.000 transessuali.

 

Si ritiene – ma è impossibile dimostrarlo – che ci siano almeno 2.000 ragazze ridotte in schiavitù e obbligate a vendere il proprio corpo; il numero dei protettori (lenoni, papponi, ruffiani), non è noto, ma sembra che ognuno di loro ottenga (?) circa 7.000 euro al mese in cambio della protezione (?) offerta. Della prostituzione camuffata (escort, entreneuse, danzatrici del ventre, interpreti di film hard, frequentatrici abituali S.M.P. dei talk show televisivi) e di quella atipica (omosessuali, travestiti) si sa poco, ancor meno si sa di quanto avvenga nei club e nei privé. Scarsa consuetudine con gli acronimi? S.M.P. significa Solo Mutande Piccole.

 

Esiste una scala di valori tra tutte le categorie alle quali ho fatto cenno, i tempi passano ma le differenze tra le puttane restano quasi immutate, a fare classe sociale. Una volta c’erano i casini per soldati, 200 lire per una fellatio senza nemmeno togliersi i pantaloni, e poi le case per buoni borghesi e preli di campagna, e infine le case di appuntamento, bisognava essere stati presentati, si diceva che fossero frequentate da studentesse universitarie e mogli di bravi professionisti in cerca di una qualsiasi giustificazione per non morire di noia. Adesso c’è la sveltina nell’androne, il piccolo appartamento borghese nel quale bisogna avere orgasmi silenziosi, l’albergo 5 stelle con il portiere compiacente, lo studio del produttore con il preservativo infilato sotto il cuscino centrale del divano, il villone signorile. In più, forse, un po’ di cocaina, qualche droga leggera, cassette di film porno per non perdere l’abbrivio.

 

Oggi come un tempo, il sistema non punisce nessuno, dovrebbe, ma non lo fa. Non si può mai sapere: la prostituzione è un problema sociale, meglio non impicciarsi; i clienti, i clienti chissà, potrebbero essere persone per bene in cerca di un momentaneo svago, o peggio, potrebbero essere…

E poi, ammettiamolo, la società oggi è molto più tollerante, a certe cose non ci fa caso nessuno, e poi chi mai ha voglia di dare il buon esempio?

 

“Prostituta” è parola che deriva dal latino prostituere (porsi davanti), e il significato etimologico – indica la schiava che viene posta in vendita davanti alla bottega del padrone — è ancora oggi valido. Perché qui sta tutto il problema, ancora una volta connesso con i diritti personali e la libertà. Penso che nessuno possa proibire a un cittadino di fare, del proprio corpo, l’uso che ritiene più opportuno, ammesso che si attenga ad alcune semplici regole, come quella di rispettare l’igiene, di non dare scandalo, di non offrirsi ai bambini e ai vecchioni. Quello che c’è di odioso nel commercio del corpo è l’esistenza dei racket, degli sfruttatori, dei ruffiani, degli schiavisti; quello che c’è di bestiale è la coercizione, la violenza, l’insopportabile ricorso alla prostituzione minorile. Quello che c’è di incredibile è che nessuna società civile riesca a evitare queste vergogne.

 

Mi offro senza difesa alle critiche e al ridicolo. A diciott’anni sono stato per almeno 3 giorni innamorato di una signorina, chiamata la Triestina, che lavorava in un bordello a Forlì. Andavo a trovarla quando uscivo di scuola, c’erano pochi clienti e potevo parlare con lei, i soldi per una marchetta li avevo raramente. Era una donna libera, più di tanti uomini che conosco, e non aveva protettori. Fu lei a chiedermi di non andare più a cercarla, credo che si sia trattato di un gesto materno.

 

Oggi si stanno aprendo nuovi luoghi per una prostituzione diversa, le ragazze si concedono e vengono ripagate con carriere politiche e televisive, i casini hanno cambiato aspetto e sembrano (sembrano) ville signorili con piscina. Posso sbagliare, quando i ricordi sono tanto sbiaditi è sempre possibile che la retorica li insudici un po’, ma sono convinto che la Triestina non ci sarebbe andata.

 

Ultima annotazione. Si parla della prostituzione come del più antico mestiere del mondo. Non sono d’accordo. Se ha ragione la Bibbia nello stabilire l’ordine delle cose create, il primo mestiere è quello del cliente.

Da “Avere o essere” di Erich Fromm

Di |2020-09-11T15:17:18+01:0019 Giugno 2020|Open space|

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O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

La modalità dell’essere ha, come prerequisiti, l’indipendenza, la libertà e la presenza della ragione critica. La sua caratteristica fondamentale consiste nell’essere attivo, che non va inteso nel senso di un’attività esterna, nell’essere indaffarati, ma di attività interna, di uso produttivo dei nostri poteri umani. Essere attivi significa dare espressione alle proprie facoltà e talenti, alla molteplicità di doti che ogni essere umano possiede, sia pure in vario grado. Significa rinnovarsi, crescere, espandersi, amare, trascendere il carcere del proprio io isolato, essere interessato, prestare attenzione, dare. Nessuna di queste esperienze, però, può essere compiutamente espressa in parole, essendo queste recipienti colmi di un’esperienza che ne trabocca. Le parole designano un’esperienza, ma non sono l’esperienza. Nel momento in cui mi trovo a esprimere ciò che ho esperimentato esclusivamente in pensieri e parole, l’esperienza stessa va in fumo: si prosciuga, è morta e divenuta mera idea. Ne consegue che l’essere è indescrivibile in parole ed è comunicabile soltanto a patto che la mia esperienza venga condivisa. Nella struttura dell’avere, la morta parola regna sovrana; nella struttura dell’essere, il dominio spetta all’esperienza viva e inesprimibile.

Solo nella misura in cui noi limitiamo la modalità dell’avere, vale a dire nel non essere (cioè quella che consiste nel cercare sicurezza e identità aggrappandoci a quanto abbiamo, standogli seduti sopra, avvinghiandosi al nostro io, ai nostri possessi), la modalità dell’essere può emergere. Essere significa rinunziare al proprio egocentrismo ed egoismo, rendersi vuoti e poveri. Per la maggior parte di noi tuttavia, rinunziare all’atteggiamento dell’avere risulta troppo difficile, e ogni tentativo in questo senso ha per effetto di determinare l’insorgere di uno stato di intensa ansia, la sensazione di far gettito della sicurezza, di essere scagliati nell’oceano senza saper nuotare. Chi si trova in questa condizione ignora che, una volta gettata via la stampella della proprietà, può finalmente cominciare a servirsi delle sue proprie forze, a camminare con le sue gambe. A trattenerlo è l’illusione che non è in grado di camminare da solo, la paura di crollare qualora non sia più sostenuto dalle cose che possiede.

Da “Pensieri lenti e veloci” di Daniel Kahneman

Di |2020-09-11T15:17:19+01:005 Giugno 2020|Open space|

Libri usati

O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Un esperimento condotto ad Harvard è il classico esempio di framing emozionale. Ai medici che parteciparono all’esperimento furono forniti dati statistici relativi agli effetti di due terapie – chirurgica e radioterapica – sul carcinoma del polmone. I tassi di sopravvivenza a cinque anni favorivano chiaramente la chirurgia, ma a breve termine la chirurgia era più rischiosa della radioterapia. Metà dei soggetti lessero i dati sui tassi di sopravvivenza, mentre gli altri ricevettero le stesse informazioni sotto forma di tasso di mortalità. Le due descrizioni dei risultati a breve termine della chirurgia erano:

Il tasso di sopravvivenza a un mese è del 90%.

Nel primo mese di registra un tasso di mortalità del 10%.

Immaginerai già i risultati: la chirurgia era molto più popolare nella prima formulazione (l’84% dei medici la scelse) che nella seconda (dove il 50 % preferiva la radioterapia). L’equivalenza logica delle due descrizioni è evidentissima e un decisore legato alla realtà farebbe la stessa scelta indipendentemente dallo loro formulazione. Ma sappiamo che il sistema 1 (nota mia: Kahneman chiama sistema 1 il processo di decisione intuitivo, impulsivo, associativo, automatico, inconscio, veloce ed economico, contrapposto al sistema 2, consapevole, deliberativo, lento, riflessivo) non è quasi mai indifferente alle parole emozionali: “mortalità” è un termine negativo, “sopravvivenza” è un termine positivo; “90% di sopravvivenza” suona incoraggiante, mentre “10% di mortalità” fa paura. Un altro importante dato portato alla luce dalle indagine è che i medici erano altrettanto soggetti all’effetto framing delle persone profane in campo medico. Evidentemente avere alle spalle studi di medicina non difende dal potere del framing.

In un’altra esperienza fu tenuto un discorso a un gruppo di funzionari della sanità pubblica, le persone che prendono decisioni in merito ai vaccini e ad altri programmi. Venne sottoposto loro il problema della malattia asiatica: metà dei funzionari videro la versione “vite salvate”, l’altra metà la versione “vite perse”. Come gli altri, quei dirigenti risultarono soggetti a effetto framing. Preoccupa che funzionari incaricati di prendere decisioni capaci di incidere sulla salute di tutti si facciano sviare da simili, banali manipolazioni, ma dobbiamo abituarci all’idea che anche le decisioni importanti siano influenzate, se non addirittura governate, dal sistema 1.

I giorni del contagio, i giorni dopo il contagio. “La peste” di Albert Camus

Di |2020-09-11T15:17:23+01:0028 Febbraio 2020|Open space|

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O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Sul principio gli uomini avevano accettato di essere isolati dall’esterno come avrebbero accettato una qualunque temporanea noia che non disturbasse se non alcune delle loro abitudini. Ma fatti coscienti all’improvviso di una sorta di sequestro, sotto il coperchio del cielo dove cominciava a lievitare l’estate, sentivano confusamente che la reclusione minacciava tutta la loro vita, e venuta la sera, l’energia che ritrovavano con la frescura li spingeva talvolta ad atti disperati.

Prima di tutto, che sia stato o no per effetto di una coincidenza, a cominciare da quella settimana, vi fu nella nostra città una paura così generale e profonda da far supporre che i nostri concittadini cominciassero davvero ad aver coscienza della loro situazione. Da questo punto di vista, l’aria della città si modificò; ma in verità la questione è se il mutamento fosse nell’aria o nei cuori.

(…)

Tutta la città si gettò fuori per festeggiare il minuto di oppressione in cui il tempo delle sofferenze finiva e il tempo dell’oblio non era ancora incominciato.

Si ballava in tutte le piazze. Da un giorno all’altro la circolazione era aumentata considerevolmente e le automobili, diventate più numerose, procedevano con difficoltà nelle strade affollate. Le campane della città suonarono a distesa per tutto il pomeriggio, colmando di vibrazioni un cielo azzurro e dorato. Nelle chiese, infatti, si celebravano funzioni di ringraziamento. Ma i tanti locali di svago erano pieni fino a schiantare, e i caffè, senza curarsi del futuro, distribuivano i loro ultimi liquori. Davanti ai banchi si stipava una folla di persone similmente eccitata e, tra esse, numerose coppie abbracciate, che non temevano di dar spettacolo. Tutti gridavano e ridevano. La provvista di vita che avevano fatto durante i mesi in cui ciascuno aveva fatto dell’animo suo una sentinella, la spendevano in quel giorno, che era quasi il giorno della loro sopravvivenza. Il giorno dopo sarebbe cominciata la vita stessa, con le sue precauzioni; per il momento, persone d’origine assai diversa si affiancavano fraternizzando. L’eguaglianza che la presenza della morte non era riuscita a realizzare, la gioia della liberazione la stabiliva, almeno per alcune ore.

 

Albert Camus

Da “La peste”

Come gli oggetti trasformano gli uomini di Theodor W. Adorno, da “Minima moralia”

Di |2020-09-11T15:17:23+01:0014 Febbraio 2020|Open space|

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O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

La tecnicizzazione – almeno per ora – rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche, delle cose. Così si disimpara a chiudere piano, con cautela e pur saldamente una porta. Quelle delle auto e dei frigidaire vanno sbattute con forza, altre hanno la tendenza a scattare da sole e inducono chi entra alla villania di non guardare dietro di sé, di non custodire l’interno che l’accoglie. Non si fa giustizia al nuovo tipo umano senza la coscienza di ciò che subisce continuamente, sin nelle fibre più riposte, dalle cose del mondo circostante. Che cosa significa per il soggetto che le finestre non hanno più battenti da aprire, ma lastre di vetro da far scorrere con violenza, che i pomi girevoli hanno preso il posto delle molli maniglie, che non ci sono più vestiboli, soglie verso la strada, mura intorno al giardino? Quale chaffeur non sarebbe indotto, dalla forza stessa del suo motore, a filare a rischio e pericolo delle formiche per strada, passanti, bambini e ciclisti? Nei movimenti che le macchine esigono da coloro che le adoperano c’è già tutta la violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti fascisti. Tra le cause del deperimento dell’esperienza c’è, non ultimo, il fatto che le cose, sottoposte alla legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare quel surplus – sia in libertà del contegno che in indipendenza della cosa – che sopravvive come nocciolo dell’esperienza perché non è consumato dall’istante dell’azione.

 

Theodor W. Adorno

1951

Rabbia, violenza, emozioni di Hannah Arendt

Di |2020-09-11T15:17:23+01:007 Febbraio 2020|Open space|

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O che si dovrebbero usare. Brevi passi da sottolineare, a volte da percorrere.

Che la violenza derivi spesso dalla rabbia è un luogo comune, e la rabbia può in effetti essere irrazionale e patologica, ma né più né meno delle altre manifestazioni dell’animo umano. È senz’altro possibile creare condizioni nelle quali gli uomini siano disumanizzati – come i campi di concentramento, la tortura, la carestia – ma in queste condizioni, non la rabbia e la violenza, ma la loro notevole assenza è il più chiaro segno di disumanizzazione. La rabbia non è affatto una reazione automatica alla miseria e alla sofferenza in quanto tali; nessuno reagisce con rabbia a una malattia incurabile o a un terremoto o, se vogliamo, alle condizioni sociali che sembrano immutabili. Soltanto dove c’è ragione di sospettare che le condizioni potrebbero cambiare e non cambiano scatta la rabbia. Soltanto quando il nostro senso della giustizia è offeso reagiamo con rabbia, e questa reazione non riflette necessariamente un’offesa personale, com’è dimostrato da tutta la storia della rivoluzione, in cui alcuni membri delle classi superiori hanno avviato e poi guidato le rivolte dei derelitti e degli oppressi. Far ricorso alla violenza quando ci si trova di fronte a situazioni o avvenimenti atroci è una grossa tentazione a causa della sua tipica immediatezza e rapidità. Agire con deliberata rapidità non è tipico della rabbia e della violenza. Al contrario nella vita privata come in quella pubblica ci sono situazioni in cui la semplice rapidità di un atto violento può essere l’unico rimedio appropriato. Il punto non è che questo ci permette di scaricare la tensione, il che in effetti può essere fatto altrettanto bene dando un pugno sul tavolo o sbattendo la porta. È che in certe circostanze la violenza – agire senza discutere né parlare e senza pensare alle conseguenze – è l’unico modo di rimettere a posto la bilancia della giustizia. In questo senso, la rabbia, e la violenza che a volte – non sempre – l’accompagna, appartengono alle “naturali” emozioni umane, e curare l’uomo da esse vorrebbe soltanto dire disumanizzarlo o evirarlo. (…) L’assenza di emozioni non causa né promuove la razionalità. Il distacco e l’equanimità di fronte a una tragedia insopportabile possono in effetti essere terribili, specialmente quando non sono il risultato di un controllo ma un’evidente manifestazione di incomprensione. Per poter reagire in modo ragionevole si deve prima di tutto essere “commossi”, e l’opposto di emozionale non è il “razionale” ma l’incapacità a lasciarsi commuovere, in genere un fenomeno patologico, o il sentimentalismo che è una perversione del sentimento. La rabbia e la violenza diventano irrazionali solo quando sono dirette contro dei sostituti, il che corrisponde purtroppo a certi umori e atteggiamenti poco meditati della società nel suo complesso.

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