Se la pressione mediatica spinge al suicidio una persona comune

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Il caso della ristoratrice, l’oggetto produttivo dei social, una proposta di riforma mediatica

In questo articolo spiegherò perché tecnicamente il suicidio della ristoratrice Giovanna Pedretti dal punto di vista mediatico (includendo nella definizione sia i media ufficiali che i social) debba considerarsi un successo. E nella parte conclusivo sosterrò, per questa ragione, la necessità di una modifica radicale del sistema mediatico.

Premetto che se le indagini ricostruissero i fatti in una maniera diversa da come oggi sono prospettati (ad esempio se il post dell’avventore che odia i gay e i disabili fosse vero oppure se la donna si fosse suicidata per altre ragioni, o addirittura fosse stata uccisa), ciò non modificherebbe di una virgola la sostanza di quel che leggerete. Quel che conta è che plausibilmente i fatti possano corrispondere a quelli che oggi conosciamo.

Immagino non sia il caso di dettagliare l’episodio, ormai a tutti noto dalla cronaca. Rivediamone solo i passaggi in termini di struttura. Lo scambio sul profilo Facebook di un ristorante fra un cliente che si lamenta di avere mangiato a fianco di disabili e gay e la padrona del locale che lo rintuzza viene rimbalzato sul social, e diviene dunque di dominio pubblico. I media ufficiali lo considerano notiziabile e amplificano il risalto. Alcuni esponenti mediatici pongono in dubbio, con argomenti persuasivi, l’attendibilità del post e incalzano la ristoratrice per metterla in difficoltà. Dato che la tesi prende piede, i social “si scatenano” (il termine è usato normalmente, ad esempio dal quotidiano “Repubblica”, quando vuole rendere ancora più notiziabile una notizia) e profondono sdegno, odio e virulenza sul profilo della ristoratrice; la ristoratrice si suicida; i giornali evocano la gogna social e i social evocano la gogna mediatica; i social si scatenano e profondono sdegno, odio e virulenza sui due personaggi dei media che hanno portato alla luce l’imbroglio e più hanno insistito perché la meschina ammettesse il suo crimine.

Già possiamo constatare come la dinamica sia piuttosto ordinaria, salvo che ci è scappato il morto: ma se scapparci il morto, rispetto alla vita umana e alla pietà, è una disgrazia, rispetto all’obiettivo dell’amplificazione mediatica – una progressione tecnica irresistibile che si alimenta delle energie dei singoli protagonisti e va anche oltre le loro intenzioni (il tutto è più della somma delle sue parti) – è un risultato eccellente. Si può solo discutere se scapparci quasi il morto, come nel caso che la ristoratrice non fosse riuscita a portare a termine il suicidio, sarebbe risultato – grazie ai dubbi sulla reale volontà di suicidarsi, l’intervista alla tentata suicida ecc. –  mediaticamente ancora più efficace della morte.

Il peccato di Giovanna Pedretti (sempre ammettendo che sia stato compiuto) è piuttosto veniale: prendendo in prestito la terminologia adottata per i grandi brand, si tratterebbe di greenwashing. Aveva cercato di attribuirsi posticciamente dei meriti sociali nell’esercizio d’impresa: la tutela di soggetti fragili o discriminati, ai quali in questo momento l’opinione pubblica attribuisce uno speciale valore. Non è una pubblicità ingannevole perché non ha mentito sull’impiego di allergeni o sulla provenienza ittica dai piatti nel menu. Non si può dire che abbia fatto danno a qualcuno, visto che il discriminatore non esiste. Si può considerare antipatico che abbia sfruttato il richiamo a queste categorie, ma in fondo le ha messe una volta di più sotto i riflettori. Come innumerevoli persone stanno facendo in questo stesso momento, ha detto una bugia per vantarsi di qualcosa che non ha fatto davvero. Poteva dirlo a una tavolata di amici o all’assemblea di condominio. Poteva raccontarlo a un conoscente in treno. Il contenuto e l’azione sarebbero stati i medesimi, e se al ristorante si mangia male in nessuno di questi casi (anche quello del post su fb) varrebbe la pena di trascorrerci la serata.

Avere scelto i social ha reso la questione potenzialmente notiziabile. Ma era davvero una notizia? Continua a valere la regola del giornalismo, per cui la notizia e che l’uomo morde il cane e non che il cane morde l’uomo. Pensiamoci bene. La notizia (l’uomo che morde il cane) sarebbe stata se il post fosse stato di un disabile che lamentava fastidio per la presenza dei normodotati; o se la ristoratrice avesse porto le sue scuse al cliente; o se da quel momento avesse sbattuto fuori a calci i gay. Che un idiota scriva un post su fb non è certo una novità, e la ristoratrice ha risposto come ci saremmo aspettati. Il fatto è diventato notiziabile per caso, come una spinta di inerzia, si sarebbe spento poche ore dopo. C’era un solo modo per tenerla viva in quanto notizia, e anzi rilanciarla: che il post del cliente fosse falso. Non voglio dire con questo che qualcuno ha forzato la mano in tal senso, faccio notare un dato obiettivo. Noi pensiamo che l’alternativa riguardo ai fatti sia sapere se sono veri o falsi. Ma per il sistema mediatico (sempre nel suo insieme) esistono in primo luogo fatti che non sono notizie e notizie. E alcuni fatti sono notizie solo se sono falsi. È questo principio uno dei propellenti del complottismo, ad esempio. Ma può fungere anche da condanna a morte di una persona qualunque, che utilizza malamente un circuito mediatico più grande di lei.

L’odio social viene stigmatizzato come se fosse un accidente. Come si si potesse dire a quelli che scrivono sui social: non fate la guerra, fate l’amore! Andrebbe fatta una distinzione tra i social, ma partendo da un quadro generale possiamo considerare i social come dei produttori particolari di beni, attraverso i messaggi e soprattutto gli algoritmi che li indirizzano. L’oggetto della loro produzione sono stati d’animo. In particolare i social ne producono quattro:

LEGAME                                                     ODIO

DIVERTIMENTO                                      CONFORMISMO

Quel che non rientra in queste quattro categorie può passare per accidente: è il caso dell’informazione. I social non sono un luogo adatto a informarsi, non almeno a informarsi correttamente: può capitare, come può capitare quando si esce a far delle compere o si ascolta una conversazione al bar.

I social producono legami, di un tipo diverso di quelli che per molto tempo, almeno per tutto il novecento, abbiamo identificato come legami. L’amore può essere un sottoprodotto, ma è piuttosto raro.

L’odio invece è un prodotto principale. L’odio non lo hanno inventato i social, ma neppure sono neutrali nella sua esposizione. Ogni post nasce per essere visto dal maggior numero persone possibile di persone. Se il post contiene odio (o divertimento. Sui social l’estremo opposto dell’odio non è l’amore ma il divertimento) ha una maggiore possibilità di diffusione e condivisione. Siccome viviamo nell’infosfera, luogo commisto di contestuale immersione virtuale e presenza fisica, l’odio nasce come iperbole digitale ma si travaserà sempre più all’ambiente fisico.

Uno dei piaceri che inebria i leoni da tastiera è insultare i personaggi pubblici. Entrare sul loro profilo e insultarli. Gliele ho cantate, gliel’ho dette sul muso, ne ho avuto il coraggio, è stato facile, inebriante. In un racconto di qualche anno fa, mai finito e dunque mai pubblicato, immaginavo che un politico abbastanza onesto, coinvolto un’indagine resa pubblica, venisse ricoperto di preconcetti attacchi e insulti sul suo profilo da parte dei simpatizzanti di fazione opposta, che gli attribuivano ingiustamente ogni nefandezza; e che, esasperato, rispondesse senza alcun fondamento a uno dei più accesi tra quegli sconosciuti: parli proprio tu che metti le mani addosso ai ragazzini, e lo sanno tutti. E nel racconto quello, che si trovava improvvisamente investito dall’inversione dell’onere della prova mentre alcuni cominciavano a dargli contro, si suicidava.

Il principio che avevo in mente è lo stesso che emerge dall’episodio di Giovanna Pedretti: la democrazia della parola instaurata dai social è illusoria. La capacità interna di difesa della persona comune (specie di quella mossa alla parola-azione sui social dalla frustrazione esistenziale) sarà sempre molto inferiore a quella del personaggio pubblico, rodato all’arena (e che da uno scandalo può persino trarre positivo carburante mediatico). I social non cancellano l’asimmetria, e il singolo insulto o dileggio ha un significato solo se confluisce nella massa. Solo se i social si scatenano.

La punizione non è un istinto esclusivo della specie umana, anche se negli animali rimane a uno stadio psicologicamente meno complesso. Solo nella specie umana, però, si sviluppa il desiderio di punire perché è stato fatto danno a un altro, diverso da quello che reclama la punizione. Si tratta di un flusso prossimo all’empatia che trova conferma negli studi neuroscientifici; Adam Smith lo qualificò come risentimento, che in quello specifico non coincide con il livore o l’invidia, ma origina dalla sofferenza dello spettatore che contempla la sofferenza di un altro essere e dal sentimento negativo che riversa su colui che l’ha provocato. Nel mio libro Derelitti e delle pene l’ho definita passione retributiva, e considerata un fondamento comunitario della ragione per punire. Ma il confine tra l’empatia e il suo opposto è sottile: in un attimo il movente può divenire lo scaricarsi della violenza contro l’aggressore e la sua disumanizzazione, o il suo utilizzo come capro espiatorio di altri e differenti mali, anche commessi da quegli stessi spettatori. Se il (ri)sentimento non viene correttamente incanalato, non si vede più all’opera una comunità solidale bensì un’orda omicida e propensa al linciaggio. A questa tendenzialmente inclina l’odio, teoricamente punitivo, sui social.

L’omicidio di Giulia Cecchettin ha suscitato subito nei media (per esigenza mediatica e non per un particolare interesse alla vittima) lo sforzo di renderlo paradigmatico: e di pescare quegli elementi che lo rendessero la prova di quel che accade ogni giorno. Ma la realtà sottostante ha opposto resistenza allo sforzo di trovare il torbido oltre l’evidentemente non già soddisfacente orrore per il delitto: no, non c’era stato un livello di minaccia che giustificasse una misura di sicurezza; non c’era stata una carenza di ascolto dell’ambiente, non una prevedibilità; non c’era stato ritardo ingiustificato nell’intervento delle forze dell’ordine. I dati non dicono affatto che i giovani sono propensi alla violenza di genere quanto i loro genitori, e assolutamente non nei contesti che non sono socialmente marginali. E il patriarcato che consisterebbe nel volersi laureare prima della ex fidanzata non avrebbe neppure il tratto (tragicamente) macchiettistico dell’epigono. Questa forma di impostazione mediatica è assurta a ennesimo sciacallaggio, comprensivo dei passaggi compulsivi su cosa dicessero la sorella di lei o il padre, o se i genitori dell’assassino gli volevano ancora bene, o un pochino meno. Nel caso Cecchettin la variante dell’individuale squilibrio mentale (chiaramente non con caratteristiche che ne limitino la responsabilità penale) è andata oltre i fattori sociali. E però, che la società lo abbia poi accettato come paradigma ne ha fatto infine quell’unico che a volte, nella storia dei cambiamenti sociali, genera la spinta che sin lì era stata frenata dalla retorica e dall’assuefazione. È divenuto un simbolo, e da esso è nata (speriamo sappia resistere alla retorica e al logorio del tempo) un’accelerazione nel dibattito sulla prevenzione culturale dei presupposti che favoriscono il femminicidio e per intanto all’approvazione della nuova normativa.

Propongo il caso Pedrotti come un analogo e simbolico spartiacque rispetto alla passiva accettazione che i social funzionino così perché così funzionano, e funzionano così perché il padrone della piattaforma così li ha programmati secondo la sua convenienza commerciale. Ad oggi le uniche limitazioni reprimibili (a posteriori) riguardano gli hate speech, cioè i discorsi d’odio contro le minoranze, e questo fa parte di un più ampio e condivisibile discorso sociale. Ma ciascuna vittima di messaggi di odio è minoranza rispetto agli imbrattatori della piattaforma: e come abbiamo detto, non una vittima accidentale ma l’elemento terminale di un meditato orientamento produttivo, che trae giovamento dall’odio. Accetteremmo che gli incroci stradali venissero progettati in modo da rendere probabile (ed economicamente proficuo) lo scontro tra i veicoli?

Quindi, ogni piattaforma deve essere considerata responsabile (insieme all’autore) della pubblicazione di ogni post che per le sue caratteristiche formali (che non sono tutto, ma già fanno una bella setacciata) si presenti orientato a manifestare non dissenso, satira, critica, argomentazione ma pura, personale, volgare, spoglia e livida aggressività. Ho detto responsabile della pubblicazione: significa che il post non deve essere pubblicabile direttamente ma solo attraverso il filtro, come già del resto avviene quando ne venga richiesta la promozione e la piattaforma attualmente sindachi la violazione di certe policy. Quanto alla stampa, per frenare la sua rincorsa al peggior volto dei social, va introdotto il divieto di pubblicare clickbait, cioè titolazioni che travisino il senso dell’articolo o lo amplifichino facendo leva sui sentimenti più meschini dei lettori. In nessuno di questi casi si tratta di limitare la libertà: far circolare con più grazia le critiche sulle piattaforme (stroncando la semplice flatulenza verbale) e fare leva sui concetti e non sull’enfasi, da parte della stampa, per sollevare l’attenzione su quel che accade sono al contrario rimedi per frenare lo smottamento civile della comunità. Proprio quello che della libertà, prima o poi, causa lo svuotamento.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2024-07-19T10:10:40+01:0019 Gennaio 2024|Limite di velocità|

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