Recensione del film “Povere creature”

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I veri amanti del cinema trovano nei film di Yorgos Lanthimos un autentico gabinetto delle meraviglie: caleidoscopio di costumi, scelte stranianti di angolazione, stranianti passaggi da eccessi coloristici a monocromi, carrellate, fisheye, lenti deformanti, incantevoli dialoghi grotteschi, colonne sonore calzate su misura e fondate sulla ripetizione o la distorsione, perfetta direzione degli attori, illusionistica frizione tra dettagli realistici e sospensione onirica. Lo stile personalissimo del regista mescola una pletora di influenze intellettuali, da Bunuel ad Haneke, raramente esibita per citazioni. Il suo ultimo film, Povere creature, trionfatore al Festival di Venezia e candidato a undici premi Oscar, ha tuttavia una fonte dichiarata di ispirazione letteraria in Frankenstein. Protagonista è infatti Bella, una giovane donna suicida (Emma Stone) che a Londra il geniale dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe) è riuscito a recuperare alla vita, impiantando in essa il cervello del feto che portava in grembo. L’idea è stuzzicante: il corpo, privo dei pregiudizi e le convenzioni sociali e dei vincoli costrittivi della biopolitica, viene guidato dall’impulso infantile e disinibito  (anzi esibizionista) della scoperta, ed essendo adulto può lasciare spazio al vettore del frenetico desiderio sessuale: un simile esperimento avrebbe semplificato il compito di Freud, senza costringerlo a lambiccarsi fra le teorie sui complessi, l’attaccamento libidico o le perversioni polimorfe, e soprattutto l’avrebbe focalizzato sulla donna piuttosto che sull’uomo.

Il film spazia in un’epoca indefinita, o meglio in un patchwork di epoche, su cui spira tuttavia una monocorde cappa vittoriana, in cui Bella si prende il ruolo che fu del maschio libertino, senza neppure il disturbo di velarlo per bon ton. Il suo creatore del resto è un uomo culturalmente aperto alla sperimentazione scientifica e sociale: anche aperto fisicamente, e poi malamente richiuso (dunque alquanto deforme, specie in viso) perché il padre, del quale ha ereditato le passioni, lo impiegava chirurgicamente in laboratorio, sacrificandolo alla ricerca. Prima di Bella, Godwin ha montato un’interessante batteria di incroci animali, ma Bella oltre che il capolavoro è la creatura prediletta e filiale: e quindi, anche se il progetto contemplerebbe di guidarla e sottoporne a metodica osservazione i progressi, non se la sente di opporsi quando lei manifesta il proposito di partire per l’avventura e sostituire le precoci titillazioni con ininterrotte cavalcate da consumarsi in viaggio a Lisbona con il propostosi amante, un avvocato erotomane e troppo fiducioso del suo priapismo. Il film, da buon romanzo di formazione, si divide sostanzialmente in tre fasi: la prima è il cammino verso la scoperta del desiderio, la sua esplosione, l’esplorazione, il piacere di sconcertare la morale vittoriana; la seconda (che la conduce sino a Parigi) è l’autogoverno del desiderio, canalizzato a ridicolizzare o superare quella stessa morale: il sesso può così servire a trarre onesto profitto (perché la donna dovrebbe vergognarsi della prostituzione?) ma ancor più a esercitare potere sugli uomini, e di ciò servirsi a fini progressisti o di emancipazione personale. La terza parte è la resa dei conti col passato, ovvero col marito violento che l’aveva indotta a fuggire dalla vita oltre che da lui, e la proiezione verso un’esistenza nuova, edificata sulle ceneri del suo demiurgo.

Che negli anni Lanthimos abbia stemperato il suo avanguardismo, aprendosi anche a un pubblico più vasto non è per forza un male: opere fascinose quanto criptiche e (volutamente) ripugnanti, come Dogtooth – che è l’antecedente, in parte anche tematico, di Povere creature – hanno ceduto il passo a gioielli quali L’aragosta (tuttora insuperato per originalità e claustrofobia), Il sacrificio del cervo sacro e La favorita, che presentavano una struttura più solida e compatta. Ciò che era rimasto di fondo era la visione cupa, nichilista e cinica dell’umanità, e se adesso egli ha realmente una disposizione d’animo che lo rende più sereno si può essere contenti per lui. Ma quel mood non era solo un tratto del temperamento o uno sfondo, si fondeva con la sua stessa visionarietà ed era all’origine del suo cinema. Egualmente, può essere apprezzabile che abbracci una posizione femminista: ma passando dal nichilismo a una sorta di pedagogismo edificante, con tanto di felice innovativa ricomposizione finale, il regista depotenzia notevolmente la sua carica eversiva. Non è un caso che la seconda parte, che non è anti-moralistica ma moralistica in un senso alternativo, si trascini con una certa fatica. Certo, disapproviamo la metà delle pagine che ha scritto Nietzsche: eppure non saremmo contenti se, al posto di quelle, l’avesse scritto lui l’Emilio, invece di Rousseau. Sospetto una punta di furbizia mainstream nel fare di Povere creature un manifesto dell’emancipazione femminile: ma il vero problema è che, quanto a contenuti, sulla critica del patriarcato e della famiglia il bagaglio di Lanthimos sembra fermo a cinquant’anni fa. Cioè non ha nulla da dire se non il fatto che lo dice. Povere creature rimane un film molto divertente, esilarante a tratti, con una notevole (stavolta però non sempre equilibrata) energia visiva e un’interpretazione monumentale di Emma Stone. Ma un pochino è come se a Lanthimos adulto avessero trapiantato un pezzo di cervello (la neocorteccia?) di un regista hollywoodiano.

Povere creature

Yorgos Lanthimos

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Di |2024-02-02T15:53:34+01:002 Febbraio 2024|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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