Valeva davvero la pena di impiccarci all’IVA?

Home>Valeva davvero la pena di impiccarci all’IVA?

La Legge di Bilancio ha scongiurato il temuto aumento dell’Iva, che del resto era stato uno dei capisaldi dell’accordo estivo tra forze politiche del nuovo governo. Passata la paura, vale forse la pena- a futura memoria- di chiedersi se davvero un aumento delle aliquote Iva sia quanto di peggio possa capitare alla nostra economia e alle tasche dei cittadini. Sin qui l’argomento è un tale tabù che è stata ricacciata indietro la suggestione di una loro rimodulazione, cioè l’aumento su alcuni beni e la riduzione su altri con effetti neutri di bilancio e a solo scopo redistributivo.

 

Un paio di premesse sono fondamentali.

Le aliquote Iva sono già differenziate: al 4% è fissata quella di beni di prima necessità, al 22% quella dei beni ordinari, in mezzo, al 10%, quella di alcuni servizi, come le erogazioni di luce e gas per usi abitativi o i servizi turistici, quali gli alberghi e i ristoranti.

L’Iva, poi, è un’imposta applicata in tutti i paesi europei. La tassazione italiana si colloca nella fascia alta, ma non ai primissimi posti. L’Ungheria ha il record con il 27%, seguita da Croazia, Svezia e Danimarca al 25%. Un certo rilievo ha anche la differenziazione interna: quella italiana, gemella di quella spagnola, scende notevolmente per alcuni beni, mentre altri paesi la applicano in maniera costante o variata in misura inferiore. La Repubblica Ceca, per esempio, ha un’aliquota normale del 21% con una sola riduzione, al 15%. La Francia ha il 19,6% ma un fascio di beni e prodotti ribassati inferiore al nostro.

 

Un aumento di imposte non è mai piacevole: e però per tante persone bisognose di servizi essenziali, dalla scuola alla sanità, è ancor meno piacevole una riduzione delle spese che servono per finanziarli. Se un aumento, o persino un’invarianza della pressione fiscale, può essere necessario per non ridurli all’osso è tuttavia apodittico che un aumento delle imposte sui redditi sia peggiore delle imposte sui consumi. Soprattutto, non è scontato che sia regressivo in un sistema che applica aliquote differenziate: in passato l’Istat constatando (come era piuttosto prevedibile) che i beni con le aliquote più alte siano acquistati in prevalenza dalle fasce di reddito più alte aveva dimostrato che il costo dell’Iva sarebbe stato tre volte superiore per i titolari di redditi più elevati (benchè non altrettanto pacifica fosse la progressività sull’incidenza in rapporto al proprio reddito).

Rispetto al reddito, vi sono peraltro fattori che favoriscono i produttori di reddito in Italia: infatti un aumento dell’Irpef grava solo su costoro, mentre l’Iva colpisce anche i prodotti provenienti dall’estero.

Uno degli argomenti più comuni per opporsi all’aumento dell’Iva è che esso deprimerebbe i consumi, per via del rincaro dei prezzi. Eppure nella tradizione degli economisti l’inopportunità di un aumento delle imposte sui consumi è stato teorizzato rispetto a un’economia galoppante, dato che assumerebbe una connotazione pericolosamente inflazionistica.

 

La verità è che c’è una differenza fondamentale tra l’imposta sui redditi e quella sui consumi: se lo stato non aumenta le imposte non c’è nessun privato che preleva quel reddito aggiuntivo al posto suo. Invece, in un’economia senza prezzi centralizzati non è solo lo stato che decide se aumentano i prezzi. Se anche non aumenta l’Iva nessuno impedisce ai produttori di alzare i prezzi per conto loro. Se l’aumento può essere digerito sino a un certo punto senza danni per il mercato (cioè, fino al tetto di anelasticità della curva di domanda), il fatto che quel livello venga raggiunto mediante l’imposta sui consumi e non mediante l’arricchimento privato ha un effetto redistributivo se le risorse vengono impiegate per ridurre i redditi più bassi o finanziare servizi di necessità. Tassando invece il maggior reddito ottenuto dal produttore lo stato recupererebbe solo una parte di quell’aumento.

Si potrebbe eccepire che in questo modo lo stato appesantisce ancora di più la posizione critica di alcuni settori del commercio o dell’artigianato. Ma l’Iva può essere rimodulata periodicamente (sia verso l’alto che verso il basso) per redistribuzione dentro i settori, per aiutare quelli in crisi rispetto a quelli che viaggiano a gonfie vele. Già ora, lo abbiamo visto, l’aliquota per i servizi turistici è meno della metà di altri settori commerciali. Ma è sotto gli occhi di tutti come in certe zone si susseguano chiusure di esercizi di vario genere seguiti dall’apertura di ristoranti. Perché, in certi luoghi e al verificarsi di alcuni dati economici, non si potrebbe ipotizzare di rimodulare l’Iva, aggravando lievemente quella dei settori che se la possono permettere (e i cui aumenti dei servizi, a prescindere dall’Iva, viaggiano in modo molto informale) per concedere una boccata di ossigeno ai produttori in difficoltà?

 

La fiscalità, insomma, può essere combinata nella polarità imposte dirette/imposte indirette senza che per forza sia da lavorare su uno solo dei due tavoli (tra l’altro Luigi Einaudi sosteneva che il vero reddito è quello che si consuma), ciò che preclude soluzioni dinamiche e creative. Anche quella (già funzionante nel settore dell’energia) di tassare certi consumi con una soglia progressiva personale, legata cioè alla quantità, alla destinazione o al valore del bene consumato.

 

Un’osservazione finale su come, se da una parte l’Iva viene agitata come un tabù, dall’altra siano già presenti elementi irrazionali e pesantemente distorsivi, dal punto di vista produttivo, nella sua applicazione.

E’ il caso del mercato immobiliare, nel quale gli acquisti di fabbricati sono sottoposti a un imposta di registro del 2% o del 9%, mentre gli acquisti effettuati da un costruttore scontano l’Iva al 4%, al 10% o al 22%. E soprattutto, le vendite di case tra privati vengono tassate sulla rendita catastale, al contrario delle vendite delle imprese, che scontano l’imposta sul corrispettivo. Due esempi numerici: devo scegliere se comprare per 300.000 euro una seconda casa e trovo sul mercato due proposte molto simili, entrambe con una rendita catastale di 100.000 euro. Se compro dal privato spendo 9000 euro, se compro dall’impresa ne spendo 30.000. Secondo voi come mi regolerò? Oppure, facciamo che posso scegliere tra due negozi, entrambi del costo di 200.000 euro, e di nuovo concorrono un privato e un’impresa. Con il primo “me la cavo” con 18.000 euro di imposte, per il secondo ce ne vogliono 44.000 (più altre 8.000 supplementari da versare all’ufficio). Cosa succederebbe se così non fosse stato, ed ex novo si imponesse una tassazione del genere? A quanto pare a tutto ci si abitua.

Di |2020-09-11T15:17:28+01:0018 Ottobre 2019|Limite di velocità|

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in cima