Perché la crisi di Netflix non è una cattiva notizia

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L’evento sociologico e finanziario degli ultimi dieci giorni è la crisi di Netflix. Com’è noto, il colosso dello streaming ha annunciato che, per la prima volta dopo dieci anni, nel trimestre gennaio-marzo i suoi abbonati sono diminuiti, e ancora diminuiranno alla fine del prossimo. E il giorno dopo ha dovuto far fronte a una mazzata in borsa, lasciando sul terreno il 35% di valore delle sue azioni (54 miliardi di dollari), il peggior giorno di trading per un’azienda nella borsa americana, dal 2004 in poi.

Nemmeno l’azienda ha provato a convincere il pubblico che il calo sia dipeso dall’annullamento degli abbonamenti in Russia, che pure erano 700.000. I dati mostrano che al calo degli Stati Uniti (già evidente dall’inizio dell’anno, e ora più marcato) si è aggiunto quello europeo. Netfix si è salvata con l’incremento di sottoscrittori in Asia, soprattutto per l’effetto Squid Game.

Ora: a parte ovviamente che per gli azionisti o il management, dobbiamo considerarla una cattiva notizia? Io direi di no, e per un mucchio di ragioni, che si traducono tutte in preziosi insegnamenti per il futuro (per le imprese, e anche per noi, non solo per Netflix). Cerchiamo di capire allora le cause di questo brusco arretramento.

La prima è che, quanto pare, l’essere umano è più resiliente di quel che appare, e ancora attaccato a certe vecchie abitudini. Ricordate le profezie in costanza di pandemia? Niente sarà come prima! Certo, dei cambiamenti sono avvenuti, e non secondari. Però non siamo diventati tutti gente stravaccata sul divano che, appena finisce la sua riunione a distanza, guarda un film in streaming dopo l’altro, aspettando che bussino alla porta per la consegna a domicilio della cena. I cinema, i teatri, l’aria aperta e le liti in ufficio esistono ancora. Non che sia un male in sé guardare i film in streaming, come non lo è ritagliarsi del tempo in casa dopo un meeting di lavoro, ma descritto come ineluttabile e totalizzante mutamento socio-antropologico cui si arriva per effetto di una calamità e nel segno della fuga dalla vita sociale coincide con un impoverimento dell’essere. La crisi di Netflix, dunque, fa parte del ridimensionamento della bolla finanziaria dell’hi-tech indotta dalla pandemia. Zoom, per dire, ha già perso quasi due terzi del suo valore massimo.

La seconda è che, con le sue serie (il fiore all’occhiello della produzione) Netflix non sta riuscendo a creare un format coerente nel lungo periodo. Le serie ci riportavano agli albori della televisione, e persino della letteratura: come conciliarle però con un pubblico giovane che la tecnologia ha educato all’insofferenza dell’attesa? Ecco quindi che le serie sono a disposizione anche in blocco: se non ti va di aspettare, grazie al binge watching, rimani attaccato allo schermo per ventisei ore di fila e ti sei tolto il mal di denti. Capite che se il marketing consiste nel posizionare un prodotto dentro una pratica culturale, messa così è un gran casino, non tanto diverso che se si volesse tenere attaccati la messa domenicale e il rave party. E comprenderete che la Piovra non avrebbe mai avuto lo stesso successo se il commissario Cattani, che alcuni attendevano con devozione la settimana successiva, per altri fosse già morto al primo binge watching. Quel che prometteva la serialità in streaming (smantellando la socialità di tutta una serie di attività culturali esterne) era la creazione di una nuova socialità, essenzialmente domestica o fondata sulla condivisione distanziata. Ma le fiction non hanno il tempo di attecchire, perché ognuno le fruisce con i tempi suoi. Non diventano conversazione sociale, perché il godimento è asincrono. E per rimediare si provvede a inondare il catalogo di altre serie, che dopo un po’ o creano alienazione (e questo fa male alla società) o creano saturazione (e questo fa male a Netflix). Dovendo scegliere…

La terza causa, quella più menzionata dagli opinionisti, è la concorrenza: Amazon, Disney, Apple e una serie di altri competitor sono piombati sul mercato. Dovrebbero gioire del ripiegamento di Netflix e invece ne sono preoccupati, e in prima battuta perdono anche loro qualcosa in termini di quotazione. Ora, se evitiamo di piombare nell’isterismo dobbiamo ammettere non solo che Netflix è un’azienda sana, ma anche che persino ai calcoli attuali rimane un modello di successo che certo non giustifica un crollo di quel genere (per intenderci: il suo valore è al 34.000% dell’offerta pubblica iniziale nel 2022 e il suo Squid Game nelle prime quattro settimane è stato visto per un miliardo e seicento milioni di ore; e ha 220 milioni di abbonati). Che cosa ci dice questa reazione? Che il mercato, nel settore tecnologico, sta scommettendo sul monopolio. Lo ha fatto con Google, Amazon, Facebook (Apple di meno), ma anche su Airbnb o Uber. Ci sono aziende che hanno continuato a ricevere fiumi di capitali mentre agivano in perdita, grazie alla convinzione che con la disruption avrebbero spazzato via i concorrenti dal mercato (e gli investitoti si aspettano in compenso utili folli: tanto che basta che ci siano un po’ meno utili e fanno saltare il banco). Peccato che mercato e monopolio siano alternativi tra loro. Il crac di Netflix serve da monito di quanto sia insana e collassante questa mentalità.

La quarta causa è la struttura del business: Netlix ci mostra come (salvo che un’unica azienda, appunto, non si ponga al riparo dell’ombrello monopolistico: e a volte non basta neppure quello) l’imprenditoria tecnologica, dopo vent’anni dalla sua esplosione, stenti ancora a inquadrare margini sostenibili di redditività, tranne che non si tratti di vendere i dati degli utenti. La tecnologia (pure in questo Apple costituisce un’eccezione) ha addestrato le nuove generazioni che poco è giusto, e gratis è meglio. Ecco che Netflix si trova a fare i conti con i “portoghesi” dello streaming, quelli che condividono l’account ed azzoppano di fatto il potenziale bacino di pubblico; o con quelli che, una volta guardata la serie che gli interessava, scendono dal tram, sospendono il pagamento e risalgono qualche stazione (qualche mese) più in là, profittando delle formule easy di accesso. Ed ecco che tutti, ovviamente, se alzi i prezzi ti considerano quell’avido capitalista che non eri cinque minuti prima, nonostante avessi ramazzato un miliardo e mezzo di utili. Chiaramente il problema viene acuito dalla concorrenza: ma, come dicevo, questa è una considerazione bizzarra. Avere dei concorrenti, e dover creare il proprio modello economicamente sostenibile considerando la loro esistenza, dovrebbe essere la regola, non l’eccezione o l’imprevisto. D’altra parte, affrontare la concorrenza a botte di investimenti ciclopici nei progetti, a sua volta non è sostenibile nel lungo periodo. Ed infatti, a un certo punto, non verrà sostenuto (Netflix, entro certi limiti, comincia già a sussurrarlo).

Queste sono le cause principali, e vedete come a ciascuna di essa si abbini un monito e la speranza che il futuro apporti dei correttivi. Ma potremmo andare ancora avanti. Trovo delizioso che qualcuno cominci a rimproverare a Netlix il suo deficit generalista: come rendersi monchi dello sport e delle news? osservano. E in effetti con la crisi di Netflix c’entra anche che gli ultimi due eventi epocali, il covid e la guerra, abbiano reso la gente più ansiosa di essere informata: magari lo fanno male, ma comunque non sarebbe sano che pretendessero di farlo solo attraverso le fiction. Cicli della vita: la tv generalista venne data per sepolta giusto trent’anni fa. E vogliamo parlare della qualità dei film? Come era accaduto con Sky, la proposta qualitativa di Netflix è miseramente tramontata, salvo che per le produzioni in proprio, che però generano quei costi spropositati che si diceva, presentano troppe uniformità di canone e tarpano le ali alle produzioni indipendenti, che invece colossi come Netflix potrebbero farsi vanto di promuovere e diffondere. Insomma, questo rinculo non è una cattiva notizia per noi, ma se la saprà leggere in modo creativo, nemmeno per Netflix: che di meriti ne ha conquistati a iosa, estetici, ideologici (alcuni) e imprenditoriali. Vedremo se riuscirà ad attingere ancora a quella sfrontata e formidabile energia che ne ha fatto un piccolo miracolo economico per aggiustare il tiro e condurre un’altra, e meglio centrata, rivoluzione.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-07-01T10:47:41+01:0029 Aprile 2022|10, Limite di velocità|

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