Recensione del film “Le buone stelle. Broker”

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Il più bel complimento che si potrebbe rivolgere a Hirozaku Kore’eda è di essere un regista familiare. Infatti il compito artistico che si è assegnato è di indagare con occhio bendisposto cosa, una famiglia, contenga di buono. Ma la famiglia di cui si occupa questa volta è abbastanza sui generis, dato che i membri non è tanto chiaro che legami di origine abbiano e praticano tutti attività illegali. La chiave del successo è che la famiglia non capiti per caso, ma sia scelta: non c’è il legame di sangue all’origine della solidarietà reciproca.

Oh, che comodità se tutte le recensioni potessero essere scritte così. In effetti, sin qui ho preso tutto pari pari dalla recensione che scrissi di Affari di famiglia, con cui il regista giapponese vinse la Palma d’Oro nel 2018. Che comodità, ma anche che palle, tanto varrebbe lasciar perdere. Un simile sbraco routinario si riflette anche sull’oggetto della recensione? Cioè, Kore’eda fa sempre lo stesso film? Non è una prerogativa sua, ma la tipica ossessione degli artisti, di produrre sempre la stessa opera. Lui lo fa più scopertamente, tutto qui. Al massimo tira maggiormente la corda. Così, quella di Le belle stelle. Broker è proprio una famiglia acquisita per tutti, cui nessuno (tranne un bambino di circa sette anni che ci si incunea dentro con la forza e l’astuzia) sospetta di appartenere sino al momento finale e decisivo, dopo il quale la famiglia in realtà si sarà allargata ulteriormente, nel modo più improbabile e visionario e una conclusiva torsione della storia in stile Frank Capra. E sì, quando si insisterà sulle ascendenze di Kore’eda tirando giustamente in ballo Ozu, bisognerà aggiungerci pure il sentimentalismo di Frank Capra, rivisitato all’orientale e nel XXI secolo.

Anzi, a essere precisi la traccia di Ozu si sta un po’ perdendo, perché Kore’eda per la seconda volta consecutiva abbandona il Giappone: prima aveva girato in Francia Le verità (ed era rimasto sotto il suo standard) e ora trasferisce armi, bagagli e burattini in Corea del Sud. E forse un dazio lo paga, perché deve rendere ossequio alle regole di base dello show e simulare molta più azione di quella che a lui garba (infatti la simula, non la inserisce), e aggrovigliare l’intreccio; e si capisce che si muove su un terreno meno congeniale, alcuni passaggi iniziali non sono chiarissimi o sviluppati con troppa velocità ma non è un difetto che nel corso della pellicola lascerà il segno. In compenso, trova attori eccellenti, primo fra tutti quel gigante di Kang-Ho-Song, esploso con Parasite e premiato per questo film a Cannes. Ma la personalità e il lavoro di sottrazione della popstar IU sono a loro volta notevoli.

La trama prende spunto dal fenomeno giapponese delle baby box, luoghi gestiti dalle chiese cristiane dove le madri involontarie abbandonano i neonati in modo che siano affidati a un’istituzione caritatevole o a una famiglia che desideri farsene carico (una discendenza storica degli Esposito di Napoli, cui in origine veniva affibbiato tale cognome perché erano trovatelli lasciati sulla Ruota degli Esposti, la baby box dell’Ottocento). Due apparenti sfigati, l’indebitatissimo gestore di tintoria Sang-hyeon e un giovanotto cresciuto in orfanatrofio nella vana attesa che la mamma venisse e riprenderselo, trafficano per piazzare questi bambini ma con la deontologia di cercarne di amorevoli e adeguati: ragion per cui sempre sfigati rimangono, perché trovarne! Questa volta intercettano il neonato Woo-song e sono pronti all’affare quando la madre, la quindicenne prostituta So-yung, che manco si era presa il disturbo di lasciarlo dentro la baby box ma subito fuori, viene presa dagli scrupoli e torna a prendere informazioni. Appreso come funziona il business, si aggrega ai due, che dopo una visita all’orfanatrofio diventano tre con la menzionata incursione del menzionato bambino di sette anni, e si mettono in cerca di questi milionari disposti a spendere un botto; e si presentano agli incontri per vedere se se lo meritano, Woo-song, quel bambino con le sopracciglia talmente sottili che Sang-hyeon le ritocca col pennarello, quel bambino che se gli prende un febbrone cosa diavolo si fa se non portarlo all’ospedale e (Sang-hyeon dovrebbe saperlo cosa diavolo si fa, è l’unico che ha conosciuto l’esperienza della paternità, ma come poi vedremo nel film anche no) – e se all’ospedale fanno troppe domande ce la si caverà – quel bambino che in una struggente fase del film sono tutti sulla ruota panoramica a fare progetti alternativi sul suo (e il loro) futuro. E intanto alle calcagna ci sono due poliziotte, una delle quali è pronta a qualsiasi trucco per forzare gli eventi in modo da coglierli con le mani del sacco, mentre scambiano i soldi col neonato. E c’è pure una gang che il bambino (pure pagando, s’intende) lo vorrebbe per un motivo che ha a che fare con il padre naturale.

Lo vedete che è un intreccio un po’ troppo intrecciato, o al massimo da noir, ma ve l’ho detto che Kore’eda li frega i produttori coreani e lo conduce a modo suo. Se stiamo a cavillare sul genere, è innegabile che i protagonisti passino un bel po’ di tempo (anche spassoso per noi) in macchina, anzi sul camioncino, ma non esagererei il dettaglio: in giro ormai si parla di un road movie anche soltanto per un motore acceso. È un magnifico film in stile Kore’eda, che a un tratto pare scivolare su una china anti-abortista e però si tratta piuttosto (mi pare: se è diverso mi spiace, ma sarà pure padrone di avere le sue idee, e non l’hanno eletto né governatore dell’Idaho né nominato Presidente italiano della Camera) di un passaggio volto a rinforzare retoricamente la storia di un abbandono. E se poi qualcuno confonde la bellezza lirica ed emozionale, e narrativamente potente per come è contestualizzata, di una scena in cui tutti si ringraziano reciprocamente per essere nati con un manifesto anti-abortista ha bisogno del forcipe per essere estratto dalla sua ossessione (esteticamente invece segnalo le due inquadrature finali: ma è sempre una bellezza legata al senso, Kore’eda concede poco che sia visivamente fine a se stesso). Quel che è vero è che il film inizia con un bambino che all’inizio è figlio di nessuno e poi diventa figlio di tutti. Un po’ anche nostro.

Le buone stelle. Broker

Hirokazu Kore’eda

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2023-01-05T18:43:48+01:0028 Ottobre 2022|Il Nuovo Giudizio Universale|

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