Recensione del film “Un affare di famiglia”

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Il più bel complimento che si potrebbe rivolgere a Hirozaku Kore-eda è di essere un regista familiare. Lo è perché la sua macchina da presa guadagna l’intimità soffocando la propria invadenza, per l’empatia che ci suscitano i suoi personaggi,

e ovviamente lo è perché il compito artistico che egli si è assegnato è di ritrarre splendidamente la famiglia,cercando di indagare con occhio bendisposto che cosa contenga di buono. Il regista nipponico la ritrae senza il cinismo critico riservatole dalla filmografia occidentale e anzi la idealizza in un modo originale, consistente nel sollevare il velo su quella rete di piccole condivisioni, trame implicite e rituali che possono renderla un’isola felice. La chiave del successo, in questo caso, è che la famiglia non capiti per caso, ma sia scelta: non c’è il legame di sangue all’origine della solidarietà reciproca.

 

In effetti la famiglia di cui si occupa stavolta Kore-eda è abbastanza sui generis. Intanto, i membri hanno legami di origine non tanto chiari. Poi praticano tutte attività illegali: perché sono disperati certo, ma neanche pare che si sforzino per trovare delle alternative. Anche se il cardine finanziario sono le frodi sulle pensioni, spicca fra tutte il taccheggio nei negozi, con punte di eccellenza nel supermercato e con il tandem di punta rappresentato dal capofamiglia e dal “figlio” di una dozzina d’anni, che in realtà è stato adottato in modo informale durante lo scasso di un autoveicolo nel quale era stato abbandonato. E subito, all’inizio del film assistiamo a un altro reclutamento filiale, di una bambina di pochissimi anni, lasciata a se stessa, tanto che i legittimi genitori non ne denunciano la scomparsa quando la famiglia di Osamu la tiene con sé offrendole nutrimento e coccole, e anche provando a sradicarle l’idea che nel conto della giornata vadano sempre messe una sporta di botte e qualche bruciatura sulle braccia. Questa famiglia non sarà uno specchio di moralità ma, insomma, l’affaccio sulla vita circostante non offre un granché come quadro. Sembra emergere la distinzione che il sociologo tedesco Tonnies enucleava tra la comunità e la società, esprimendo la netta preferenza per la prima. Le istituzioni non vengono tratteggiate con simpatia. Gli assistenti sociali, che con il precipitare di alcuni eventi si troveranno a dissodare il terreno sul quale era stata eretto il legame della famiglia, non sembrano poi tanto svegli e leggono le vicende burocraticamente e con sbilanciamento classista, cercando stupidamente di convincere i membri dell’evanescenza della loro energia affettiva.

 

La comunità di Kore-eda, intendiamoci, è un concetto problematico. Per richiamarne un altro sociologico (questo fu applicato all’Italia meridionale) a casa di Osamu pare regnare il familismo amorale. Ma i membri non coltivano un legame antagonistico alla società, non importano dentro il loro nucleo l’approssimazione etica esibita all’esterno e nemmeno sono un aggregato chiuso e immutabile. Salvo il crimine, quello dei miserabili però, educano anzi nella loro cerchia uno spirito di autenticità e cortesia che li rende bendisposti alla vita, e quindi anche al prossimo (una delle “sorelle”, ad esempio, esibisce il suo corpo in un peep shop: ma con quale tenerezza cerca di lenire i dolori segreti di uno dei clienti, invitato fuori dalla cabina!). Ciò non significa che non potranno mai tradirsi tra loro (specie se è in gioco la salvezza del gruppo) né che siano veramente quanto di meglio l’uno possa capitare all’altro. Al contrario, il “figlio” che comincia a prendere le distanze dalle pratiche per sostentarsi, e con una scelta radicale mette in crisi la comunità, si troverà di fronte all’opportunità di intraprendere il percorso scolastico dal quale era stato tenuto lontano. Ma proprio il salto di maturità gli darà la capacità di riconoscere (in una scena terribile e commovente) la forza di quel legame tra padre e figlio che a lungo era riluttante a interiorizzare al di fuori del vincolo biologico. Peraltro, la scelta di descrivere una famiglia di scelta e non di sangue non sembra tracciare un confine ideologico tra le due, a scapito della prima. Per Kore-eda, l’apprendimento affettivo nella famiglia diventa, sempre e a un certo punto, un lavoro profondo su se stessi, chiamando poi a sperimentarsi e rinnovarsi: è quando questo non avviene, o non avviene più, che la famiglia si dissolve. I primi piani che accompagnano alcuni interrogatori della famiglia da parte della polizia servono a mostrare al meglio il loro sofferto impegno al riguardo di fronte all’opposizione corrosiva dell’autorità.

 

Se per certi versi è comprensibile che Kore-eda sia considerato il continuatore tematico di Ozu, nemmeno va dimenticato come il maestro fosse più propenso a focalizzarsi sul carattere repressivo e ipocrita della famiglia e anche sul conflitto generazionale; quanto alla comune rappresentazione di interni, quelli stipati di Kore-eda sono uno schiaffo al culto giapponese dello spazio vuoto. Nella consueta assenza di eccessi formali del regista, la fotografia pennella tuttavia dei magnifici quadretti umanistici. Se proprio si vuole cercare il pelo nell’uovo della verosimiglianza, la bambina ha dei comportamenti serafici esageratamente sotto la soglia della credibilità. Ma la narrazione è armonica, poetica, ordinata e coinvolgente.

 

Un affare di famiglia

Hirozaku Kore-eda

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:14:23+01:0021 Settembre 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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