Prendi in affido un elettore

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La discussione politica in Italia, quella in bocca alla gente comune prima che agli esponenti di partito, negli ultimi mesi si è fatta molto più frequente e accesa che negli anni precedenti. In sé potrebbe anche essere una buona notizia. Il primo difetto che si rileva, tuttavia, è che essa si risolve, quasi esclusivamente, nella discussione sui migranti.
Persino in tema di criminalità quasi più nessuno si ricorda della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta, che pure risultano tutte ancora piuttosto combattive: gli unici reati di cui si parla con sdegno e preoccupazione, contro i quali mobilitare le forze dell’ordine, sono quelli commessi dagli immigrati. Alcuni commentatori sottolineano come si tratti di un grande successo di Salvini che ottiene in questo modo di deviare l’attenzione verso il tema al centro della sua campagna elettorale e di distogliere dai veri problemi (e parallelamente di un insuccesso dell’alleato pentastellato che ha difficoltà a spostare l’agenda sui temi che più gli sono consoni). Successo incredibile se si considerano non solo i termini reali del problema ma l’attuale diminuzione degli sbarchi in Italia (20.000 arrivi sino ad agosto 2018 contro 100.000 tra gennaio ed agosto 2017, l’80% in meno: per inciso, per la metà di queste persone l’Italia è solo il paese di transito. Il principale dilemma del nostro paese oggi è dunque: cosa fare se ogni mese continua a entrare uno straniero ogni 46000 residenti?).

 

Ora, il meccanismo della deviazione di attenzione è sempre stato un cavallo di battaglia di qualsiasi forza politica nel mondo, né certo si può considerare una novità la distorsione propagandistica dei fatti. Ma quel che più impressiona, nel nostro caso, non è l’uso di un tema a fini di distrazione e consenso (come dire: parliamo di migranti, così non devo spiegare come finanziare la flat tax o della fine che hanno fatto i 49 milioni di fondi pubblici) ma il fatto che l’uso di un unico aspetto di quel tema occulti tutti gli altri profili, anche quando sono devastanti. Mi spiego meglio.

 

Già in un articolo precedente, a proposito dell’Aquarius, avevo evidenziato come mentre la contrarietà all’immigrazione è una posizione politica, mettere a repentaglio la vita di seicento esseri umani negando loro di attraccare è la violazione di una norma di civiltà che dovrebbe precedere qualsiasi posizioni politica (qualcosa di simile all’essere propensi una guerra ma non a uccidere i prigionieri).

Sul caso della Diciotti, il dibattito sull’obbligo o sull’opportunità di sbarcare i migranti ha posto completamente in secondo piano la circostanza che il ministro dell’interno non avesse legalmente l’autorità per impedire lo sbarco (che non ha caso ha vietato oralmente e tramite Facebook invece che con disposizioni formali). Salvini, cioè, poteva impedirlo allo stesso titolo con cui potevo impedirlo io o voi che leggete. Persino fra le istituzioni e sugli organi giornalistici questo elemento fondante è stato ridotto a dettaglio di contorno. Cosa diremmo se la legge di bilancio fosse respinta dal Consiglio Superiore della Magistratura? Ma, per toccare la vita quotidiana di chiunque, cosa direbbe un “cittadino” (non mi piaceva la sua sostituzione con il “consumatore” ma comincio già a essere stufo dell’abuso politico della parola a fini di captatio benevolentiae, come il posteggiatore che a Napoli ti dice dottò) se il presidente dell’ordine degli avvocati o un consigliere comunale pretendessero di multarlo seduta stante perché (forse) ha la macchina in divieto di sosta? L’abuso dell’autorità, una volta che si propone come modello, finisce sempre per sgocciolare rapidamente verso il basso…

 

Ma se, nell’incomprensione della sostanza, fosse proprio l’aroma di quell’abuso di autorità ad eccitare le masse? Mi ha in effetti colpito come, specialmente sui social, anche persone insospettabili e di squisita urbanità facessero circolare il motto “finalmente un ministro con le palle!” e ne lodassero il coraggio. Per avere le palle bisogna agire contro la legge? Quanto al coraggio è difficile immaginare nulla di più vicino alla viltà. Dove starebbe il coraggio di un uomo nel tenere ammassata una torma di eritrei disperati che non possono avvicinarlo? E non è di immediata evidenza che, nella situazione asimmetrica di forza, è coraggioso è il magistrato che apre un fascicolo e non l’illustre indagato, il quale ben sa che in una situazione del genere campa cavallo fino a che si arriverà a un giudizio, se mai ci si arriverà? E se il ministro dell’interno (dell’interno!) considera onorificenze gli avvisi di garanzia perché un idraulico o un ortopedico non dovrebbero farne carta da parati? E la “sfida” all’Europa, se va male, in mezzo alla strada senza una lira (sarebbe senza un euro, ma portiamoci avanti che non si sa mai…) ci butta i giovani e i disoccupati o quello con le palle che ha lanciato la sfida?

 

Naturalmente sappiamo che è quasi impossibile raggiungere una simile soglia di discussione. Nella maggior parte dei casi, tutto si ferma molto prima, soprattutto se viaggia sull’effervescenza dei social, e si conclude rapidamente con qualche insulto. La dolorosa sensazione che prova chi cerca di informarsi è l’esistenza di un divario che non è una divergenza politica ma un’alterità che comincia a diventare antropologica. Attenzione, non antropologica tra sinistra e destra: anche se penso che questa differenza ideologica esista per una volta voglio nascondermi io dietro la foglia di fico con scritto “ma non esistono più destra e sinistra!”. Antropologica tra persone che coltivano una disposizione al ragionamento analitico (con tutti i loro pregiudizi e i loro errori) e persone che non provano alcun interesse verso un simulacro di verità, che si comportano come i tifosi di calcio delle curve. La disinformazione e l’ignoranza esistevano prima di Internet: ma quello che i social media ha sdoganato è che sono diventati aggregatori in senso sociologico di una “classe”, che contesta alla radice i valori della competenza, della razionalità e della cultura. Essi hanno trovato, non in un solo paese, una classe politica di riferimento (che sovente è in sintonia anche dal punto di vista della formazione “culturale”) e nella gran parte dell’Occidente rappresentano la maggioranza e forse preludono a una deriva autoritaria, giacché l’autoritarismo esprime concetti di facile comprensione anche per un cavernicolo mentre la democrazia è una struttura complessa e contraddittoria, impensabile senza che la guidino, pur imperfettamente, competenza, la razionalità e la cultura (aggiungerei anche l’intelligenza emotiva che, storicamente, è una delle prime vittime dell’autoritarismo).

 

Ma qual è il destino di quel terzo di popolazione che improvvisamente si scopre minoranza? Wlodek Goldkorn, alcuni giorni fa, ha usato felicemente l’immagine della bolla. A Varsavia, Budapest o Tel Aviv, paesi ora a sovranità sovranista si svolge un’altra vita, condotta come se il potere e il suo linguaggio non esistessero. Artisti, giovani e intellettuali esercitano una certa egemonia culturale, si muovono in bici, consumano cibi globalizzati, leggono pubblicazioni on line sottratte alla censura, si ritrovano ai festival del cinema. Hanno abbandonato l’idea di avere una rappresentanza politica in grado di conquistare il potere: ma “nella bolla la vita è comoda e agiata. Sarà questa l’Italia dei prossimi anni?”.

Il distacco delle classi intellettuali dalla politica e dall’impegno militante non è il frutto di questa stagione, e viene più da lontano. Ma la bolla di cui parla Goldkorn, alla lunga, rischia di raccogliersi intorno un terreno disseccato, e di consegnare una vita molto frustrante.

 

Ma quali scelte ha oggi chi voglia pensare a una forma moderna di militanza, realizzata fuori dalla bolla? Oggi, quelle offerte dalla politica sono inesistenti o velleitarie, e d’altronde troppo distanti dal linguaggio della maggioranza per poterla intercettare. C’è una cosa utile e concreta, prima di ogni altra: raggiungere, singolarmente o poco più, persone che quotidianamente mostrano di non possedere gli strumenti critici e provare, con garbo, a mettere loro sotto gli occhi quel che si rifiutano di vedere. Diciamo prendere in affido elettori immaturi. Ma non necessariamente per portarli da una parte politica differente, e assolutamente non per fargli il lavaggio del cervello. Se divenissero consapevoli che l’affezione per un partito o un leader significa qualche volta contribuire con la critica a fargli intraprendere una direzione diversa, la qualità della politica cambierebbe profondamente.

Un gruppo esteso di persone che si desse questo obiettivo, l’affido di elettori immaturi, e discutesse creativamente su quali siano le occasioni e il linguaggio per interagirvi significativamente, sarebbe uno straordinario progetto per il bene comune.

Di |2020-09-11T15:15:00+01:0014 Settembre 2018|Il futuro della democrazia|

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