Promuoviamo la realtà aumentata, purchè non conduca alla fake life

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Passa per la sorella sfigata della realtà virtuale e ha avuto il suo momento di gloria con la caccia ai Pokemon, che non ha risparmiato (e questo è un po’ meno glorioso) nemmeno la zona congiunta demilitarizzata tra le due Coree e neppure i forni crematori di Auschwitz.

E il suo flop vertiginoso con i Google Glass, vanamente lanciati con rullo di tamburo e finiti nel gradimento dietro le lenti bifocali.E’ la realtà aumentata, AR per gli amici, e per come viene presentata mediaticamente sembra un’inutile polluzione digitale che viene a confondere le coordinate visive di un mondo fisico che è già abbastanza torbido lasciato a se stesso.

 

E invece la realtà aumentata è una tecnologia sulla tecnologia dato che sopperisce a una lacuna di tutti i nostri dati, che si propongono a noi sopra schermi e pagine bidimensionali, creando quindi uno scarto cognitivo rispetto al tridimensionale mondo fisico. La sovrapposizione a quest’ultimo di dati e immagini digitali ricompone dunque, in alcune circostanze, la coerenza informativa e amplia la sfera percettiva.

Un esempio sono i visori AR installati sulle autovetture. Se usiamo un GPS dobbiamo guardare una mappa visualizzata sullo schermo e poi tradurla mentalmente nel mondo esterno. I visori head-up di realtà aumentata, invece, sovrappongono direttamente le immagini a quel che il guidatore vede attraverso il parabrezza. Non è soltanto una semplificazione, ma anche una riduzione degli errori e delle distrazioni in un contesto, quello stradale, nel quale sono in gioco l’incolumità proprie e degli altri.

 

Le applicazioni di AR mettono anche a disposizione caratteristiche degli oggetti e delle persone che non sarebbe possibile conoscere direttamente, un po’ come i raggi X. Un’azienda di apparecchi medicali, ad esempio, sfrutta una tecnologia che converte la traccia termica delle vene del paziente in un’immagine sovrapposta alla pelle grazie alla quale medici e infermieri possono localizzare più facilmente i vasi sanguigni. E’ un piccolo indizio dei progressi che potrebbe fare anche la diagnostica. Più in generale, la tecnologia AR promette di diventare una sorta di manuale di istruzioni percettivamente inglobato nell’oggetto che deve spiegare o un visualizzatore di informazioni, e magari un loro connettore, che salta la mediazione di altre interfacce. Con degli smart glass potremo guardare la nostra casa dal basso ed essere certi di avere inserito l’allarme, spento il gas e conoscere lo stato termico del momento.

Recentemente il grande economista ed esperto di strategia manageriale Michael E. Porter ha osservato come la combinazione della realtà aumentata con la realtà virtuale (che sostituisce al mondo fisico un ambiente creato dal computer) possa consentire una serie di simulazioni che trascendono la distanza (riguardando ambienti lontanissimi), il tempo (riproducendo contesti storici o anticipando situazioni future) e la dimensione (consentendo l’accesso ad ambienti che per le loro dimensioni si sottraggono alla sperimentazione diretta), aggiungendo che questa forma di incremento digitale dell’agente umano promette una maggiore efficienza dell’intelligenza artificiale. Anche il rapporto tra azienda e consumatore ha maggiori chance di trasparenza in tutti i casi in cui il bene è un prodotto non finito il quale, grazie alla realtà aumentata, si può esplorare nella consistenza che assumerà (una risorsa che già ora, in alcuni campi, sta modificando il concetto di show room).

 

La realtà aumentata si potrebbe spingere, tecnicamente, sino all’estrazione di tutti i dati presenti nella Rete concernente quel che abbiamo di fronte e decidiamo di visualizzare. Metto a fuoco il tizio di cui non ricordo il nome che mi sta salutando dall’altra parte del marciapiede e risolvo ogni problema di prosopagnosia, anzi faccio bella figura chiedendogli come sta la figlioletta di cui non mi ha mai parlato (ma la cui foto aveva postato sui suoi profili social nel giorno del compleanno).

Quest’esempio ci trasporta in una zona di confine delicata, quasi quanto quella coreana nella quale sguazzavano i Pokemon. E’ accettabile vivere sotto la spada di Damocle di un’identificazione perpetua in qualsiasi spazio, senza avere dato preventivamente il consenso? Si potrebbe rispondere che alla fin fine se i dati sono osservabili dal pc non c’è niente di scandaloso nel fatto che si rivelino de visu (in senso letterale) e che dovremo rassegnarci a un’altra ritoccata del concetto di privacy. Certo è che alcuni dati innocui a distanza possono non solo diventare fastidiosi da vicino ma pure stimolare azioni indesiderate (si pensi alle attenzioni che potrebbero ricevere donne piacenti che una rapida analisi mostri biograficamente bendisposte verso certi caratteri fisici o culturali del loro osservatore in AR per strada).

 

Si pone dunque, nel momento in cui la AR esce dal laboratorio e dalla gestione di dati controllati e strettamente funzionali a un’operazione condivisa tra tutti gli interessati, un serio problema di arginamento.

Ma quel che capita quando si attinge a dei dati è anche che possano essere fasulli. Di più: la AR in alcuni casi ha esattamente l’obiettivo di sovrapporre immagini fasulle al mondo fisico, come nel caso dei Pokemon e in generale di ogni impiego ludico. Essa viene così a pareggiarsi, nella sostanza, con quell’altra tecnologia che è la realtà diminuita la quale, anziché aggiungere, fa sparire digitalmente gli oggetti dal loro ambiente fisico. Che è una gran comodità se si tratta di rimuovere l’imbracatura dell’attore sullo schermo ma non fa certo bene alla psiche se rimuove il sofferto conflitto con il fratello rimuovendo il fratello.

 

Per quanti pregiudizi possano dividerci, quel che avvantaggia la collaborazione nella specie è che quando ci troviamo nello stesso luogo abbiamo davanti la medesima realtà fisica. Certo, uno vede il bicchiere mezzo pieno e un altro mezzo vuoto: ma non è la stessa cosa che uno dei due lo veda del tutto vuoto, colmo fino all’orlo di tamarindo o veda soltanto la bottiglia che lo affianca (o la cerbottana che lo sostituisce se abbiamo messo in campo con la realtà aumentata/diminuita pure la realtà virtuale).

Sarebbe singolare che, mentre ci si scandalizza per le fake news si desse a ciascuno la possibilità di costruirsi la propria fake life: e non chiudendosi nella finzione solipsistica in un mondo parellelo (digitale o puramente fantastico) ma “puntando”, dentro ambienti condivisi, uno strumento che gli consegna un suo personale frammento di realtà, diverso e forse incompatibile con quello di chi gli sta seduto a fianco. Non è una difesa sindacale a pro dell’uomo e a sfavore del cyborg. Ci sono davvero nei casi in cui quel che ci serve è una faccia, e non un interfaccia.

 

L’allargamento, fuori da contesti utilitaristici con una ricaduta sociale positiva, della realtà aumentata (l’aumento della realtà aumentata) è un’occasione per una riflessione che dovrebbe essere centrale nel dibattito sulle tecnologie: il fatto che alcune cose possano diventino tecnicamente possibili non significa né che noi ne abbiamo veramente bisogno in tutti i contesti e tanto meno che sia sensato autorizzarle indiscriminatamente. La realtà aumentata è un ottimo esempio di come una tecnologia digitale possa accrescere opportunità nelle nostre vite (e vada quindi vigorosamente promossa) solo se viene recintata entro quel che le è consono.

Di |2020-09-11T15:16:21+01:002 Febbraio 2018|Web philosophy|

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