Frammenti di un discorso amoroso. La conversazione sentimentale 2.0

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“La conversazione è un genere di intimità. Non serve solo ad avere più informazioni ma ad avere informazioni diverse.” Sherry Turkle.

 

Quello amoroso è un genere conversazionale a se stante.

Intanto suddiviso in numerose sottocategorie: quello fra corteggiatori, innamorati, amanti in crisi, coppie abbandonate al piacere dell’abitudine. Inoltre, se le conversazioni in generale vedono di solito prevalere in alternativa l’elemento dell’informazione oppure quello del contatto (quando parliamo di cose inutili solo per mostrarci reciprocamente che stiamo parlando,e quindi creando o mantenendo una relazione), quasi tutte le conversazioni sentimentali viaggiano sulla lunghezza d’onda di un’informazione-contatto:

un’informazione che non vale mai solo per il suo contenuto ma anche come monitoraggio del legame (ti racconto cosa è accaduto sul lavoro e vediamo se te ne interessi; ti racconto qualcosa precisandoti che ho difficoltà a parlarne, e ti sto dicendo che con te riesco a parlarne). Anche quando verte sul bosone di Higgs, la conversazione di una coppia (esistente o annusante) contiene un profilo autoreferenziale. Questo significa che la conversazione è il cuore della vitalità sentimentale.

 

Ebbene, qual è lo stato di salute della conversazione sentimentale sotto l’ombrello digitale? L’ottima Sherry Turkle, sociologa-psicologa che studia criticamente le tecnologie, pensa che sia pessimo e (lo vedremo meglio dopo) nel suo libro “La conversazione necessaria” sostiene che sia pessimo per ogni forma di conversazione. Per l’amore sarebbe una caduta verticale rispetto a quando le persone si dicevano le cose attraverso la cornetta invece di mandarsi messaggi.

Non è però che stiamo idealizzando il telefono vocale (come a lungo ha fatto la pubblicità)? Leggete le parole del grande Roland Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso”, probabilmente ancora oggi il miglior saggio (scritto in modo atipico, appunto frammentato) pubblicato sull’amore, se si toglie dal concorso il Simposio di Platone.

La telefonata è sempre una cacofonia e quello che il telefono lascia filtrare è la voce falsa, la comunicazione fasulla (…) Senza dubbio attraverso il telefono quello che cerco di negare è la separazione (…) ma il suo significato non è il collegamento bensì la distanza; la voce amata, stanca, ascoltata per telefono (…) Quando questa voce giunge a me, quando essa è là non la riconosco mai completamente, si direbbe che essa provenga da dietro una maschera (…) E inoltre l’altro sembra sempre che essa stia per partire; egli se ne va due volte: attraverso la sua voce e il suo silenzio: a chi tocca parlare? Cessiamo insieme di parlare: ingombro di due vuoti. Sto per lasciarti, dice a ogni istante la voce al telefono.

Magari Barthes la vede troppo grigia, ma non c’è dubbio che la frase più paradigmatica della telefonata sentimentale sia “Non riattaccare!”, e che anche quando non venga esplicitata aleggi nei sottintesi di quello che dei due sta misurando la simmetria della relazione. Non sono d’accordo con Barthes sul fatto che il silenzio sia sempre un preludio d’assenza perché l’amante che tace al telefono a volte sta dicendo guarda, sono qui, sto anche zitto piuttosto che riattaccare. E tuttavia quello sfondo della cornetta appesa rimane un dato angosciante (a volte anche per chi vuole riattaccare e nella corrente interna che lo attraversa pensa ma non capisce che adesso ho da fare, e si insinua in lui il dubbio sui suoi sentimenti).

 

Può allora darsi che il cambiamento d’uso del dispositivo (in cui la vocalità diventa appendice della messaggeria) costituisca alla fin fine un alleviamento delle pene d’amor? Ma se questo costituisce una razionale gestione della distanza tra gli innamorati, non entriamo forse dentro criteri di efficienza che con l’amore  non hanno tanto a che fare?

Torniamo alla conversazione. L’influsso della telefonia mobile, delle app e dei social network può manifestarsi in due momenti diversi: 1) quando la coppia è fisicamente insieme 2) quando la coppia è fisicamente separata.

Nel primo caso, il cellulare a portata ripropone una questione che Barthes aveva sollevato quando la tecnologia digitale non era neppure alle viste.

Il mondo è pieno di vicini indiscreti con i quali mi tocca condividere l’altro. Il mondo è precisamente questo: un obbligo di spartizione. Il mondo (il mondano) è il mio rivale. Sono continuamente infastidito da seccatori: una lontana conoscenza incontrata per caso e che  per forza viene a sedersi al nostro tavolo; un oggetto, ad esempio, un libro, nel quale l’altro è assorto. E’ fastidioso tutto ciò che cancella fugacemente la relazione duale, tutto ciò che altera la complicità e allenta il legame di appartenenza: “Tu appartieni anche a me” dice il mondo.

 

Ma questo è il ritratto del cellulare! Scusa cara, devo rispondere a questa chiamata…Scusa tesoro, controllo questo messaggio…Senti guarda anche tu questa cosa su Google che il mio non prende bene…Qui, qui, lo schermo, non guardarmi negli occhi, è questo il video che volevo condividere…Aspetta, fotografo il piatto di spaghetti che lo giriamo agli amici. E che pena vedere quei ragazzi che siedono a fianco ognuno sul suo display! Il cellulare amplifica l’obbligo di spartizione, e anzi tira tutta la coperta dal suo lato con tutta la sua gamma infinita di possibilità, rende la competizione impari (ma dai, non dico che quello/a fianco sia da buttare ma io ti sto porgendo il mondo, il mondo intero! Raccontale/gli piuttosto quello che ti sto facendo vedere adesso).

Come scrive Alain De Botton “il vero amore è quando non abbiamo alcun desiderio di controllare lo smartphone in presenza dell’altro” (ma vallo a spiegare a Carlotta e Werther). Allo stesso modo alcuni dei giovani intervistati da Sherry Turkle descrivono lo spegnimento del cellulare da parte della persona con cui sono la più seria e impegnativa dichiarazione programmatica di attenzione.

 

Alle conversazioni da vicino, insomma lo smartphone non giova e rappresenta un terribile ostacolo alla concentrazione unitasking richiesta per  instaurare il “Regno di te”, a dirla con Emily Dickinson.

Possiamo dire che incrementa la possibilità di tenerne a distanza? Di conversazioni pure si tratta. Come ho scritto altrove, chi comunica digitalmente scriparla, usa un ibrido che adotta l’informalità del linguaggio verbale, e cerca di mimarlo. Peraltro, con la messaggeria vocale c’è anche la possibilità di saltare del tutto la mediazione dello scritto. Entrambe le forme di contatto però presentano asperità. Il testo scritto ha l’onere di alleggerirsi attraverso gli emoticon o il dispendio dei segni d’interpunzione per non essere frainteso come duro o distante: è un carico fragile ma anziché l’etichetta “maneggiare con cura” si trova tappezzato di affissioni che suonano come “scherzo, eh?”, “che bello!che bello! che bello!” che lo sdrammatizzano sino a raffreddarlo di più sotto il profili emotivo (appaiandolo nel modo di presentarsi a tutta la lista dei messaggi precedenti e a venire). Il testo verbale, nello sfalsamento dei tempi di risposta e per una certa esigenza di economia espressiva, fa sì che lo scambio non sia una conversazione (nella quale olisticamente l’insieme è maggiore delle sue parti e lo sviluppo punta verso la profondità) bensì la giustapposizione di due monologhi che si mantengono sulla superficie per allinearsi orizzontalmente.

 

Si potranno anche disattivare delle app ma è impossibile disattivare le “funzioni” che il dispositivo ci fa interiorizzare a mezzo del suo uso. Lo smartphone abitua a non esporsi (e disimpara a dire “mi dispiace” e “scusa” a voce, passaggio indispensabile per la ricomposizione di una frattura),  a esplorare le “alternative” (rendendo un po’ meno desiderabile quel che si ha, e persino meno facile scegliere, perché è stato testato sperimentalmente che quando la scelta è troppo vasta saremo meno propensi a effettuarla e meno soddisfatti quando la effettueremo), a rendere produttivo ogni secondo (qualità che la conversazione, o lo stare insieme in silenzio, non possiedono, non almeno nel senso dell’efficienza) a illudersi di conservare il controllo sulle cose monitorandole costantemente ( e quindi a diffidare dell’abbandonarsi).

 

Nella relazione amorosa la tecnologia digitale introduce una polarità schizofrenica che oscilla tra la pretesa di possesso dell’altro, la sua completa disponibilità (ci sono smartphone che funzionano anche sotto la doccia) e la strategia di sottrarsi ostentatamente (quando l’altro vede che sono on line, non rispondere al messaggio è un’arma di tensione che può essere usata scientemente. C’è poi tutta una scienza del “tempo giusto”, cioè neanche troppo presto, per rispondere a un messaggio se si sta flirtando). Il rapporto tra attesa e conversazione con l’amato/spasimato è del resto un perno della relazione. Ancora Barthes, sempre ovviamente con riferimento al telefono pre-digitale:

L’attesa è un incantesimo. Io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti all’infinito, fino alla vergogna (…) l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata senza fare nulla (…)

Adesso, nella stessa posa, avrò avuto modo di messaggiare con chiunque: il che mi avrà reso meno fedele alla “fatale identità dell’innamorato”, che Barthes riassume in “quello che aspetta” ma anche meno patetico, visto dall’esterno. Mi pare che il problema dell’amore 2.0 non sia nella attese ma in quel che accade quando le attese si sono consumate ed è il momento di parlare.

 

La tesi di Sherry Turkle è che con la tecnologia digitale abbiamo perduto una serie di competenze inerenti al parlare e al conversare, e per questa via una serie di attitudini essenziali per muoversi nel mondo in modo soddisfacente: non conversando con l’insegnante si apprende peggio, non abituandosi ai confronti faccia a faccia ci si rende inabili alle transazioni commerciali e agli scambi più profondi dell’amicizia, spezzando le conversazioni d’amore in una serie di frammenti e di fughe, sparsi on line e offline, è difficile comporla in un quadro coerente, stabile e profondo.

Probabilmente, a conversare male si era cominciato già prima: la tecnologia ha risolto un problema (cosa fare visto che langue la conversazione?) prima di crearlo (lasciamo perdere la conversazione, tanto abbiamo la tecnologia). Ovviamente, da un certo punto in poi, diventa difficile, e anche inutile, dire se venga prima l’uovo o la gallina.

Da dove ricominciare la conversazione? La mia proposta a ogni coppia è: fate una conversazione sulla qualità della vostra conversazione. Anche perché rimane ancora valido il pensiero che Pavarotti espresse su cosa bisogna domandarsi prima di sposare qualcuno: come sarebbe la conversazione?

Di |2020-09-11T15:16:49+01:007 Aprile 2017|Web philosophy|

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