Blockchain in panne

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La blockchain è la più ideologica fra le tecnologie digitali. Costituisce il culmine dell’anarco-libertarismo che ha animato inizialmente lo spirito della Silicon Valley e la sua sfiducia verso ogni forma di autorità centrale. L’idea di fondo è che grazie a un controllo distribuito fra i partecipanti a un network (si dice anche consenso distribuito, benchè il controllo e il consenso non è che siano proprio la stessa cosa) si possa fare a meno di banche, mediatori, notai e un giorno magari anche di governi e regolare, ad esempio, le transazioni commerciali e la formazione delle volontà deliberative.

 

Nella blockchain pubblica le transazioni vengono registrate per blocchi sui computer di chiunque voglia accedere e collegate da un hash alle transazioni precedenti, rendendole immodificabili e assicurando sia la validità della transazione che la monitorabilità del registro.

Assai più di Google, Facebook e Amazon, la blockchain sembra preludere a una società nuova. Eppure, in un mondo nel quale le innovazioni digitali si definiscono molto velocemente, pare entrata in una fase di stallo. Si è constatato come il peso in megabit risulti insostenibile per dei computer relativamente ordinari; dimostrato come l’energia richiesta per le complesse operazioni computazionali per ora svolte da pochi precursori bruci le stesse risorse che a un paese con qualche milione di abitanti servono per rendere operative la fabbriche e funzionali le abitazioni; e ancora non si è potuto risolvere il collegato problema dell’esiguità delle transazioni, circa sette al secondo (contro, ad esempio, le 60.000 che Visa può concludere nello stesso tempo). Si è dovuto ammettere che gli hackeraggi sono quasi un gioco da ragazzi ( purchè hacker) e in effetti sono già stati sottratti centinaia di miioni nell’ambito delle criptovalute. Si è preso coscienza del fatto che la circostanza che con il 51% dei nodi della catena si possa falsificare e corrompere il sistema non è un’ipotesi di scuola ma un esito plausibile della concentrazione del mining in mano a poche società cinesi.

 

Ma c’è un aspetto più sbalorditivo. Nel 1985 alcuni ricercatori americani hanno dimostrato che non esiste alcuna possibilità di ottenere un consenso distribuito se interviene un arresto improvviso di un computer in una fase di negoziazione dell’accordo ricercato. Questa conclusione, mai smentita, è confinata negli articoli scientifici e completamente dimenticata nelle narrazioni divulgative sulla blockchain. Così come viene di solito rimosso che in questo “falansterio digitale” (così lo hanno chiamato ironicamente Michael Raynal e Gerard Roucaroul) degli algoritmi distribuiti, ogni computer effettua la medesima transazione ma in maniera asincrona, alla sua propria velocità,e non si conosce a priori quanto durerà il cammino del messaggio tra i computer. Il perfetto funzionamento dell’infrastruttura (e inevitabilmente della sovrastruttura sociale che determina quell’infrastruttura) è la condizione per la quale le blockchain possono funzionare a loro volta.

 

La blockchain è lo stato terminale di quella patologia sociale pericolosissima per la quale dobbiamo trasferire la nostra fiducia dalle persone agli algoritmi (in altra occasione dettaglierò meglio i rischi di una simile deriva).

Questo non vuol dire che la blockchain non possa essere migliorata e impiegata utilmente (magari più utilmente di alcune recenti applicazioni di tracciabilità, che potrebbero essere realizzate in forme meno evolute, ma che passano per la blockain a fine di benefit pubblicitario).

Quel che va segnalato, però, è che gli stati di avanzamento della blockchain sono ormai condotti da quei grandi enti (banche, corporation, governi) che si volevano estromettere, e che invece stanno centralizzando il sogno del decentramento autonomo e sperimentando come la blockchain possa essere ricondotta al loro servizio. Del resto, il seguito del sistema di base (registro di transazioni immodificabili) è un archivio digitale impossibile da manomettere che inserisca i dati di più persone possibili. Che nell’insieme è una cosa abbastanza stupida: perché i dati non manipolati potrebbero essere stati inseriti falsi sin dall’inizio. E perché il sogno di un registro globale (o di tanti registri privati; e anche di smart contracts- che per fare un esempio- precludano di entrare in casa all’inquilino che non ha pagato una rata di affitto) appartiene, e serve, più ai grandi enti che alle persone registrate.

Di |2020-09-11T15:17:29+01:0026 Luglio 2019|Web philosophy|

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