Sally Gabori, imparare a ottant’anni

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Ufficio Visti

Questa è una delle vicende più incredibili nella storia della pittura, oltre che l’occasione di riflettere sulle forme di rappresentazione di una persona matura, e anzi senile, che parte da un grado zero di esposizione all’arte. Sally Gabori dedica gli ultimi dieci anni della sua vita a dipingere: stiamo parlando di quelli che vanno dagli ottanta ai novanta (non gli Ottanta e i Novanta, i suoi 80 e 90 anni). Il nome natio è parecchio più impronunciabile per un occidentale: Mirdidinnkingathi Juwarnda, è complicato ma ha un senso perché si riferisce al suo totem di nascita (ogni membro della comunità ne ha uno), il delfino. Sally infatti è un’aborigena australiana che cuce le reti da pesca nell’isola di Bentinck, una delle ultime a essere entrata in contatto con i coloni europei. I suoi abitanti parlano il kayardilt: quando Sally nasce sono un centinaio, quando lasceranno l’isola saranno in 63. Accadrà nel 1948, a causa di un tifone seguito da uno tsunami che spazza via tutto, comprese le risorse naturali con cui si alimentavano; questa volta devono cedere alle insistenze dei missionari presbiteriani, che da diversi anni volevano portarli sulla vicina e attrezzata isola di Mornington, dove i religiosi si erano installati dal 1914. Non è una grande accoglienza: i kayaldit vengono accampati sulla spiaggia e separati dai bambini, che vivono dentro la missione con il divieto di parlare la lingua materna e subiscono dunque la rottura totale con la loro cultura e le loro tradizioni. Sally si adatta a vivere a Mornington insieme al marito, con il quale concepisce undici figli. Si adatta faticosamente perché vorrebbe tornare a Bentinck, e però il governo coloniale nemmeno riconosce la proprietà delle terre ai natii. Non sino al 1984, quando finalmente i kayaldit possono tornare. Ma con quali speranza di vita? Non ci sono cure sanitarie e non è semplice ripristinare la simbiosi con l’ambiente. Così nel 2000 Sally ritorna stabilmente a Mornington, che si è evoluta a sufficienza da offrirle ospitalità in una casa di riposo, e nel 2005 entra per la prima volta in un centro d’arte, uno di quelli in cui gli aborigeni sono incoraggiati a dipingere i loro temi simbolici che già avevano tracciato sulla roccia o la corteccia.

Quando prendono una piega interessante i quadri sono inviati alle gallerie che alimentano il mercato esotico per gli occidentali. Ma quasi subito Sally Gabori si distacca sia dalle tradizionali forme elementari circolari, appuntite e semifigurative (con riferimento per lo più agli animali) degli altri aborigeni sia dalla piccola dimensione, adottando invece misure medie di sei metri per due. Ci sparge sopra dense pennellate di colore che richiamano l’espressionismo astratto e che ben potrebbero essere state dipinte da Sam Francis o Clyfford Stiff, benché lei di sicuro mai ne abbia sentito parlare o visto una riproduzione. Ne realizza duemila, sino a un attimo prima di morire, e fa in tempo a essere inclusa in una mostra collettiva associata alla Biennale di Venezia e ricevere una committenza dall’aeroporto di Brisbane, dove i viaggiatori oggi possono incrociare i suoi potenti e luminosi colori. Si presuppone che rappresentino il mare, il sole, la terra; i titoli evocano una sua personale topografia dell’isola, giacché ognuno ne richiama una parte. I quadri sono meravigliosi, di una libertà formale assoluta, profondamente diversi tra loro, nessuno evoca la claustrofobia del piccolo luogo ma piuttosto la fuga verso l’infinito, il tema sottilmente ricorrente azzarderei sia l’onda, forse quella provocata dal tifone, come se i pennelli si sforzassero di illanguidirla, espanderla verso il cielo, mutarne il corso. Sono opere che mostrano una mano decisa, che conosce il risultato cui perverrà alla fine. Perché diavolo siano sfociate nell’equivalente dell’espressionismo astratto americano rimarrà un mistero: il pensiero più intrigante è, che come per i simboli, esistano archetipi junghiani anche per l’astrazione (simbolica a sua volta); e che solo la civiltà abbia, da un lato, la forza di sommergerli sotto la narrazione della materia e dall’altro, la possibilità di dotare una donna aborigena australiana dei mezzi tecnici per far riemergere il loro spirito ancestrale.

Sally Gabori

Parigi- Fondation Cartier

Fino al 6 novembre 2022

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-12-09T13:02:15+01:007 Ottobre 2022|Ufficio visti|

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