Il virus e la globalizzazione

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Tutto comincia in una di quella città che gli economisti chiamano “canali del valore globale”. A Wuhan sono impiantate fabbriche di grandi multinazionali, come Renault, General Motors e Honda. Dotata di gigantesche zone industriali, vi si sono riversati negli ultimi anni più di 20 miliardi di dollari per investimenti stranieri. È una sorta di Chicago, rivisitata un secolo dopo in salsa cinese: un nodo ferroviario di intensa circolazione, crocevia – sommando i voli aerei – di oltre un miliardo di passeggeri all’inizio del secolo, diventati 4 miliardi a fine 2019. L’arresto delle attività produttive cinesi ha interrotto la catena produttiva e contemporaneamente provocato la caduta dei mercati finanziari nelle città globali, così denominate perché è là (Tokyo, Londra, New York) che si coordinano la finanza e la produzione.

 

Intanto l’epidemia prosegue il suo tragitto con un altro tipico dispositivo, quello delle navi da crociera, i cui passeggeri annuali sono diventati 30 milioni, e il turismo aereo, che mette in volo 4 miliardi e mezzo di persone ogni anno. È per quest’ultima via che il virus è arrivato in Europa.

 

Una terza dimensione della mondializzazione ha giocato un ruolo determinante nella diffusione: la religione. Il focolaio iraniano è stato Qom, capitale religiosa del paese, gigantesco luogo di pellegrinaggio sciita nel quale fedeli giunti da ogni parte del mondo si radunano dentro le scuole religiose; anche in Corea del sud la trasmissione sarebbe partita dalla chiesa di Shincheonji, dove una setta semicristiana con 240.000 adepti sparsi in 29 paesi per giunta considera il virus non una malattia ma un peccato da redimere chiudendosi in chiesa e tenendosi per mano.

Il virus ha comodamente utilizzato anche la via della trasmigrazione, che nel gergo della mondializzazione designa le frequenti andate e ritorno tra due paesi differenti. In questo modo è arrivato dall’Asia in California e in Canada. Nella sua corsa ha sforbiciato un altro dispositivo emblematico della mondializzazione commerciale contemporanea: i saloni e le fiere internazionali che radunano a intervalli regolari migliaia di professionisti di questo o quel settore, venuti da tutti i continenti, e differiti o annullati, alcuni anche dopo il loro sostanziale allestimento.

Infine il virus si è sdoppiato, e da fisico è divenuto un contagio mediatico dentro l’informazione globale, documentando in modo tempestivo dati, eventi significativi e testimonianze, ma pure propagandone varie distorsioni con una velocità che rendeva lungamente vane le smentite e terrificanti gli allarmismi. “Il carattere da feuilleton dell’epidemia è intrinsecamente legato alla diffusione del virus” ha scritto il docente di politiche mondiali all’università del Quebec, Romain Lecler (verso il quale sono ampiamente debitore di questa ricostruzione).

Si noterà che dentro la catena sequenziale manca quello che abitualmente viene considerato il più insidioso fattore di contagio, culturale e sanitario, vale a dire le migrazioni. Sin qui hanno pesato poco e nulla, ed è al contrario prevedibile che possano essere i paesi più ricchi a esportare la malattia in quelli meno sviluppati (che dovranno poi affrontarla con la limitatezza delle proprie strutture sanitarie).

È questo l’ultimo paradosso di un evento che ci ha improvvisamente proiettato dentro i legami, per i più inconsapevoli, che davvero nel mondo globalizzato legano l’uragano al lontano battito d’ali di una farfalla.

 

Sarebbe puerile cogliere l’occasione del virus per discutere se la globalizzazione sia cosa buona o cattiva. Se è vero, come abbiamo visto, che il contagio fotografa plasticamente i movimenti dentro il mondo globalizzato, è anche vero che rende possibile la circolazione degli strumenti per arginarla, rende meno devastanti le singole crisi locali e nel tempo ha incrementato i redditi in una misura che ha consentito di innalzare i livelli sanitari dei paesi (benché non sia stata certo quella la destinazione privilegiata). Il virus però viene a cadere in un momento in cui la ricchezza prodotta dalla globalizzazione era già in contrazione, a causa della crisi strutturale dei principi che la governano. Oltre quelli già emersi, dobbiamo ora mettere in conto la tendenza a non adottare dei piani B per le situazioni di emergenza (che riguardino la gestione sanitaria o l’interdipendenza di una produzione), l’omissione dentro il calcolo dei costi e delle diseconomie – legate alla delocalizzazioni – delle perdite che conseguono ai cigni neri, la difficoltà di coordinare l’azione dei paesi in modo normativo, quindi al di fuori della “naturale” omogeneizzazione imposta dai flussi globali durante il normale funzionamento dei mercati.

 

Al tirar delle somme, ci rendiamo conto che se la globalizzazione è un fenomeno inevitabile, non altrettanto lo sono le sue modalità; e se queste sono improntate solo all’interesse del capitalismo liberista molti effetti possono essere dannosi. Il virus è solo la punta dell’iceberg, e in parte anche un evento sfortunato: dovrebbe farci riflettere sui piccoli e invisibili contagi – non sanitari – che accettiamo come un automatismo (anche la sinistra, che ha il torto di avere lasciato il campo ai populisti nell’intercettazione dei disagi latenti, così come i partiti liberali furono meno pronti dei fascismi a fare i conti con la società di massa). Se ancora non sappiamo come sarà la globalizzazione post-virus, ci possiamo fare l’idea di alcuni modi di come non dovrebbe essere. Sarebbe ad esempio, un guaio, se le piattaforme digitali – che dello stato attuale della globalizzazione sono fra i soggetti dominanti ed economicamente sfruttatori, oltre che responsabili dell’eccesso di accelerazione – ne traessero ulteriore vantaggio, facendo normalità dell’incremento di contatti digitali in funzione sostitutiva di interazioni fisiche, anche dentro comunità ristrette, nato sulla scorta delle misure di contenimento.

Di |2021-01-02T08:32:58+01:0012 Marzo 2020|Limite di velocità|

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