Il conte ex-dimezzato, i selfie di Salvini, Di Maio e l’uno che non vale l’altro: i linguaggi della crisi di governo.

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A un certo punto dell’estate, Matteo Salvini ha chiesto agli italiani di dargli “pieni poteri”. Il leader della Lega si è messo in una condizione non dissimile da quella degli integralisti islamici che in Algeria annunciarono che avrebbero abolito la democrazia in caso di elezioni, e che non senza ragione furono messi fuori legge subito dopo la vittoria elettorale. “Pieni poteri” se è detto da un politico e non al bar ha un significato eversivo: non equivale affatto a “dateci la maggioranza assoluta, così possiamo attuare tutto il nostro programma”. Di un simile, legittimo appello elettorale non ha neppure la prima persona plurale: non è la propaganda di un partito democratico. È l’assaggio, linguistico, di una dittatura personale.

 

Avrei sperato che fosse questa frase a compattare i partiti in grado di formare un governo alternativo, in nome di in patto costituzionale, prima che politico, di difesa della democrazia. Può darsi, in effetti, che lo sia stata. Ma incredibilmente non ve n’è stata traccia nelle dichiarazioni di avvicinamento fra PD e 5 stelle: sembrerebbe implicitamente accettato che l’aumento dell’Iva (per carità, non un evento economicamente indolore) non lasci tempo per soffermarsi sulla banale circostanza della richiesta di pieni poteri da parte di un tizio che ha passato l’anno di governo indossando per posa tutte le divise militari, con l’assiduità che una signora vezzosa dedicherebbe alla verifica della taglia degli abiti per la nuova stagione.

Mi sarebbe persino parso normale che, in nome di un patto costituzionale, i due nuovi partiti di governo annunciassero nel programma pene severe per comportamenti che costituiscono “istigazione al razzismo”, anche se realizzati con mezzi digitali, o chiarissero che nel bullismo (dagli con pene severe anche là) rientra anche l’ordine di “aprire il fuoco” sui social contro persone comuni che manifestano dissenso politico, quando ordinato da un personaggio con un seguito e addirittura un incarico pubblico. Con relativa interdizione dai pubblici uffici per il reo.

L’unica cosa di cui non ci sarebbe stato bisogno, in questo nuovo patto, sarebbe stata l’introduzione di norme restrittive sulle manifestazioni di piazza, in previsione di quelle che l’eversore organizzerà per contestare la formazione del nuovo governo. Non tanto perché non sarebbe nello spirito costituzionale (in effetti non lo sarebbe), ma perché ha già provveduto a renderle vigenti Salvini. La lezione pratica della democrazia, per quelli che proprio sono indifferenti sua lezione morale, è esattamente questa: non introdurre norme che non vorresti se venissi a trovarti dall’altra parte della barricata.

 

Ovviamente, anche senza questa sensibilità costituzionale, i due partiti avevano tutto il diritto di formare il governo. Non solo formalmente (su quello solo un cretino può esprimere dubbi). Ricordiamo cosa è accaduto: nelle elezioni di marzo 2018 nessuno ha raggiunto la maggioranza per governare. Così due forze fortemente antagoniste nei programmi sottoposti all’elettorato (una differenza che la comune inclinazione populista non basta a eliminare) hanno deciso di allearsi, con una formula atipica definita “contratto”. Sarebbe ben strano che quando il “contraente” con meno voti si stufa, perché pensa di prendere un sacco di voti in una non prevista tornata elettorale, e si rimangia la parola (dimostrando che contratto non era: nella vita reale, quando qualcuno si ritira da un contratto paga i danni), il “contraente” di maggioranza non possa ritornare alla situazione immediatamente post-elettorale e fare un accordo di maggioranza con un altro partito.

Certo è che mentre il contratto con la Lega era stato celebrato trionfalisticamente, quello con il PD è stato trasmesso mediaticamente come una purga. Credo che mai nella storia politica d’Europa democratica, sia accaduto che uno dei due soggetti che trattano un’ intesa di governo abbia preso a criticare l’altro dal primo minuto degli incontri: “Questi già cominciano a litigare” diceva subito Di Maio. E poi, che senso ha nella prospettiva di un accordo, dire: “Il programma già c’è, sono i nostri punti. O li approvate o niente”? Era una scena quasi tenera quella di Zingaretti – ha tenuto in verità un buon profilo – che reclamava la “discontinuità” e un “governo di svolta” mentre Di Maio scampava come la peste queste parole e anzi non mancava di rivendicare l’eccellente lavoro svolto insieme alla Lega, anche sulle misure più care a Salvini.

Più che impuntarsi sulla questione della vicepresidenza, il PD avrebbe dovuto esigere non un’abiura ma almeno una giustificazione pubblica da parte dei 5 stelle del passaggio da una sponda all’altra, che fosse diversa dal prendere la seconda linea di autobus che conduce a Palazzo Chigi. Anche una blanda, tipo: “Avevamo sbagliato a fidarci di Salvini. In certi provvedimenti di destra ci sentivamo in effetti a disagio”.

Incredibilmente è accaduto l’opposto. Siccome a seguito dell’abboccamento con il PD, Salvini – resosi conto del suicidio – ha implorato la ricucitura e persino offerto la presidenza a Di Maio, abbiamo potuto leggere il compiacimento di alcuni esponenti pentastellati: “Tutti ci cercano!”. O ancora sentire Di Maio: “La distinzione tra destra e sinistra è superata”, che non solo non è gentile se stai chiedendo i voti al partito di sinistra, ma è particolarmente stupido se alle Europee hai appena perso quasi la metà dei tuoi voti a favore del partito alleato che non solo è di destra ma lo urla pure ai quattro venti.

Quel che i Cinque Stelle hanno scontato nell’avvicinamento è stata l’assoluta ritrosia del loro timoniere a questo matrimonio con il PD, irretito com’è dalla proposta di Salvini di fare pace mettendolo a capo del governo (come non fidarsi?); il compimento della carriera per il giovanotto che ha avuto in dono un partito politico e ne ha dimezzato i voti; che alla sua prima elezione politica ha preso cinquantanove voti (cinquantanove!) nella sua città che conta 40.000 abitanti; che non potrebbe partecipare alle prossime elezioni se si rispettasse la regola dei due mandati, ma ha già chiarito con una logica da far invidia a Frege che il primo è il mandato zero e non conta; che “uno vale uno” e abbasso i politici di professione ma intanto ha preteso quattro ruoli (viceministro, ministro del lavoro, ministro dello sviluppo, capo del partito) e guai a chi glieli tocca. E sempre a proposito di “uno vale uno” ha precisato che è vero sì che uno vale uno ma uno non vale l’altro, cioè che uno vale uno solo se non è l’altro (questa farebbe invidia a Wittgenstein).

Dietro lo scollamento tra di Maio e i pontisti con il PD, oltre che Grillo, si nasconde una spaccatura del partito che non sarebbe neppure una disgrazia così grave, e anzi potrebbe essere un segno di confronto interno e un passo verso la maturità. Ma quel che scorre dentro il partito è segreto come quel che accadeva nel Politburo, altro che streaming e trasparenza. È paradossale, se consideriamo la storia e i multipli rischi di scissione, ma la figura della forza politica dal dibattito franco e diretto la fa il PD! I Cinque Stelle scontano un fallimento comunicativo che si manifesta nelle risposte politichesi e nell’assenza di un qualsiasi comunicato che non sia negatorio e difensivo, oppure vuotamente trionfalistico, e nella pantomima finale del voto su Rousseau che politicamente ha il compito di camuffare questo marasma.

Ma potrà sopravvivere il costituendo governo a tanta opacità? E ci si può unire in matrimonio cominciando col passare la prima notte di nozze a litigare per il turno in bagno? Onestamente non c’è da essere ottimisti. Per questo un patto costituzionale sarebbe stato più serio.

 

Il linguaggio politico di Salvini nel periodo trascorso al governo ha preso una direzione quasi ossessiva, quella del selfismo. Tutta la comunicazione del leader della Lega si è risolta in quel medesimo schema che consiste nello scattare una foto e mettersi davanti all’obiettivo. Cioè, come il vero selfista, Salvini non parla se non può dire io. C’è il fenomeno della migrazione, ma non mi interessa parlarne: guarda le navi delle Ong e adesso guarda me che sono davanti, che lo contrasto. Hanno arrestato questi criminali, ma guarda me davanti: sono io che l’ho fatto. Questo è l’avviso di garanzia, ma io me ne frego. Persino riguardo alla croce, sbandierarla o mettersela al collo crea un’illusione ottica. È Salvini (io) che sta davanti alla croce, come sta davanti alla Nutella o alla sdraio in spiaggia. Non si spiegherebbe diversamente la pretesa di riscrivere il cristianesimo, o di spiegarlo a quel fesso del Papa.

Il selfismo linguistico in politica conduce inevitabilmente ad alcune derive: finisce in esibizione muscolare e contiene una carica di violenza, nemmeno tanto sottile, cui fa da sardonico contrappeso l’invio di bacioni, e che cela la sostanziale viltà dell’uomo. L’altra deriva è la perdita del senso di realtà, dissolto in un narcisismo sesquipedale, dal quale è derivato l’incredibile harakiri.

Il problema è che dopo un po’ i selfie stancano anche i fan, se non sono alimentati dal culto e dalla pratica del potere. Salvini che rivendica il blocco di una nave e poi lo annuncia su Facebook è equamente diviso tra il mondo fisico e quello virtuale. Ma se viene meno il blocco della nave, Salvini diventa solo un banfone qualsiasi, una specie di youtuber destinato ad essere soppiantato da tipi più divertenti e meno chiagnazzari (il Papa, la mafia, l’Europa, tutti stanno lì a cospirare! Ma benedetto ragazzo, perché si è messo anche lui a cospirare contro se stesso, e ha indetto le elezioni facendo la figura dell’imbecille? Avesse avuto la possibilità di usare lo stesso tempismo per farci uscire dall’euro ci saremmo ridotti peggio dell’Argentina.) Senza potere sarà difficile prolungare il miracoloso innamoramento collettivo per un tipo di comportamenti che, fossero attuati da uno studente del liceo, indurrebbero il preside a convocare i genitori e suggerirebbero di farlo seguire da uno psicologo.

 

Il momento peggiore per la reputazione di Salvini, in effetti, è stata sicuramente la reprimenda che ha dovuto incassare, in posa da studente, dal preside Giuseppe Conte: e la totale incapacità, nella sua replica, di entrare nel merito delle accuse per provare a respingerle. Era scattato il pilota automatico del solito comizio in piazza. Altro che leader. Salvini, d’altronde, non sa cosa sia il dibattito con un avversario o un’intervista in contraddittorio. È impaurito dal confronto, e inidoneo a reggerlo dialetticamente.

Molti hanno accusato Conte di essere stato a sua volta pavido sino al momento del discorso. Perché non aveva formulato prima a Salvini quelle accuse? In realtà buona parte delle stesse riguardavano fatti accaduti nell’ultima settimana. E non è poi tanto strano che un capo del governo eviti di attaccare frontalmente uno dei due leader di partito, se non altro per lealtà di coalizione. Ma, in ogni caso, quel discorso ha avuto due pregi eccezionali per questa fase politica: ha formulato accuse dirette, senza essere allusivo né insultante (Salvini ne era scioccato); le ha sollevate in Parlamento, riconducendo il confronto politico nelle sedi istituzionali. Non dimentico che è la stessa persona che ha posato da valletto per Salvini con il cartello affisso per il decreto di sicurezza, e non escludo che nella sua ribellione abbia seguito disegni interiori di personale tornaconto. Ma quel che i nostri leader politici non dovrebbero dimenticare che la qualità del pubblico (e non solo della discussione pubblica) dipende anche dal modo in cui rappresentano – proprio in senso teatrale – il ruolo che esercitano. Non è un caso se la rappresentazione, per una volta piena di dignità linguistica e istituzionale, sia provenuta da una persona colta, in mezzo a un branco di ignoranti.

Di |2020-09-11T15:17:29+01:006 Settembre 2019|Limite di velocità|

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