Descrizione in dieci punti dell’homo smartphonicus a fini commerciali

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La funzione principale di Internet, attualmente, è commerciale. I colossi della digital economy si servono della rete, oltre che per fornire i propri servizi, per analizzare i comportamenti degli utenti, venderne i dati e sviluppare l’intelligenza mediante l’involontario volontariato degli utenti stessi.

Queste aziende, dunque, sanno molte cose di ciascuno di noi, preso singolarmente (anche se quella singolarità viene numerizzata: il soggetto non è Pinco Pallino ma l’esito algoritmico delle sue condotte). Figuriamoci quanto conoscono a menadito le tendenze psicologiche generali che ispirano le nostre azioni. Del resto, le hanno modellate loro, per lo più.  Ora, per quanto possa apparire stupefacente, una discreta parte di coloro che svolgono un’attività d’impresa, al di fuori dei giganti di cui abbiamo detto, non si pongono mai seriamente le domande che dovrebbero assillarli, come: che tipo di mentalità pratica esprimono le persone adulte dell’età digitale? In che cosa si pongono diversamente da come i loro genitori (o loro stessi) si ponevano in passato? Eppure è solo rispondendo a quelle domande che possono sperare di ottenerne l’attenzione e il gradimento.

A dire il vero, le stesse domande, gioverebbe porsele pure a quelli che non commerciano, e non si danno pace di quel che talvolta non gli torna nei rapporti personali.

Ma per comodità formale (oltre che perché me ne sono occupato in ambito comunicativo) voglio impostare la schematizzazione che segue soprattutto dal punto di vista di quel che dovrebbe essere chiaro a un qualsiasi venditore. Del resto- una volta ammesso che il modo di funzionamento del web dipende da criteri commerciali- è quasi fisiologico descrivere l’homo smartphonicus nel suo profilo di acquirente (o almeno in un profilo che possa meglio inquadrarlo come tale).

Quel che segue, pertanto, è una sintetica esposizione di dieci tendenze sociali e psicologiche. Alcune non vi suoneranno nuove, anche perché in quel “le persone” ci siete voi stessi; e riconoscerete così certe forme mentali familiari, benché ciascun individuo se ne stacchi in qualche modo o le riproponga in una sua chiave personale (una cosa è un modello di orientamento, un’altra uno stereotipo).

Arriviamo al punto (anzi ai dieci punti). Come sono le persone dopo la “cura” digitale?

Sono abituate ad avere un sacco di cose gratis o al minor prezzo possibile. La prima grande utopia della rete è stata “gratis!”. Posso avere gratis informazioni per le quali prima pagavo. Posso guardare video e sentire musica gratis, telefonare gratis, una volta che ho un dispositivo digitale posso girare la città senza comprare le mappe, sapere che ora è senza comprare un orologio e leggere le notizie senza comprare i giornali. Se chiedo una consulenza mi aspetto che sia gratis e se seguo un tutorial gratis imparerò a fare i lavori in casa, gratis, perché non avrò bisogno di chiamare un artigiano. Beh, se qualcosa proprio non può essere gratis quanto meno la rete mi consente di mettere in concorrenza tutti i venditori della terra e spuntare il prezzo più basso. Non domando più: quanto costa? Domando: qual è la tua offerta? Si tratta di una cosa splendida, democratica, emancipatrice, che ci renderebbe più liberi. Ci renderebbe, appunto. Sarebbe così se il sistema economico non fosse ancora il capitalismo tradizionale, che funziona su produzione, salari e moneta. Se non esiste un comunismo digitale, che assorbe tutti i rapporti economici, ogni volta che qualcuno non paga o risparmia c’è qualcuno che non incassa, e questo fatto può essere un riequilibratore sociale ma anche no. La persona danneggiata può essere persino la stessa che ha ricevuto il beneficio. Al mattino ha comprato con entusiasmo a un prezzo stracciato un bene prodotto in qualche paese dove pagano un dollaro all’ora agli operai che l’hanno costruito, e il pomeriggio gli arriva la lettera di licenziamento dell’azienda dove è impiegato e che, per via della concorrenza globalizzata, si accinge a chiudere. Certo, non è dipeso proprio da quell’acquisto ma il consumatore Giovanni, insieme ad altri miliardi di persone, mentre risparmiava ha creato le premesse perché il lavoratore Giovanni (sempre quel Giovanni lì), insieme ad altri milioni di persone, finisse per rimetterci. Ora, se Giovanni non arriva a preoccuparsi di sé stesso, perché dovrebbe preoccuparsi degli altri, che pretendono di farlo pagare, e magari anche un prezzo che non è il più basso possibile? Insomma, la gratuità diffusa dalla tecnologia ha reso molto più difficile farsi pagare, specie un prezzo più alto della concorrenza, che tale è perché corrisponde a un valore. E la teoria che, dopo l’avvento di Internet, chi si rende utile gratuitamente poi verrà premiato dalla clientela, quasi come forma di riconoscenza, è completamente infondata.

Sono abituate a non aspettare. Per ricordarsi quanti anni ha Hugh Grant si può sopravvivere fino alla fine del film che state vedendo e in cui l’attore recita? E perché si dovrebbe, dato che possiamo toglierci il dubbio in tempo reale? Ci sono molte cose per le quali prima eravamo costretti a spostamenti, code e procedure, e che adesso si possono effettuare in pochi minuti: prenotazioni di voli e alberghi, iscrizioni all’università, firme di contratti, far leggere un testo a una persona nell’altro continente, fare una ricerca di studio. La velocizzazione ha cambiato il tempo di vita, e soppresso la tolleranza verso l’attesa: se un file con dei documenti tarda ad aprirsi di qualche secondo, proviamo un senso di frustrazione superiore a quello che ci avvolgeva quando aspettavamo quei documenti per settimane. A ciò si è aggiunta la facilità di raggiungere i destinatari: ho mandato la mail da un’ora, perché non mi risponde? È connesso, non è possibile che non abbia visto il mio messaggio, che fa, m’ignora? Il venditore che non riempie il loro spazio di attesa con un’interlocuzione è immediatamente un nemico.

Sono più conflittuali. Essere insofferenti per l’attesa ed essere compressi dalla velocizzazione (e stressati dalla raggiungibilità) rende piuttosto nervosi: le persone sono irritabili, e lo stile informale delle principali interazioni abbatte quelle formule di cortesia la cui rigidità aveva il pregio di contenere l’aggressività. Dei social network, sappiamo in via ufficiale (vedi il recente scandalo di Facebook) quel che intuivamo, e cioè che sono strutturati per farci venire ansie, depressioni e travasi di bile. Infine, il potere di cui, attraverso la rete, dispone anche una singola persona, quello di guastare la reputazione dell’azienda o del professionista che non lo hanno servito come desiderava, facilita la propensione allo scontro da parte del cliente.

Sono più informate. Magari molte persone saranno informate male, ma di certo sono più informate di prima. Soprattutto sono informate riguardo al tipo di azioni che si accingono a intraprendere: prima di rivolgersi a un medico avranno consultato trenta siti per sapere quale forma di cancro li ha colpiti. Se si siedono davanti a un venditore il loro primo intento non è esserne informati ma metterlo alla prova.

 

Sono piene di pregiudizi. Potrebbe sembrare strano che le persone siano più informate, e allo stesso tempo più infarcite di pregiudizi. Ma gli algoritmi del web funzionano personalizzando le schermate di ogni utente, che si tratti delle pagine di ricerche o (soprattutto) delle pagine social. Cominciate, per esperimento a fare ricerche sulla befana, pubblicate foto su Instagram in abito da befana e post su Facebook dichiarando di credere alla befana. In poco tempo, vi appariranno dovunque le pubblicità dei libri per bambini e appena aprite Facebook (che bella coincidenza!) vi accoglieranno i post del Gruppo di Quelli Che Credono alla Befana – oltre a una serie di post e annunci pubblicitari coerenti col vostro profilo psicologico di credulone. Ma, a un livello o un altro, siamo tutti un po’ creduloni. Non ci mettiamo davanti a uno schermo per cambiare le idee e i pregiudizi che abbiamo ma per trovarne la conferma. E gli algoritmi si impegnano tanto per accontentarci e che centuplicano il valore di una vecchia e cinica affermazione di un guru del marketing: non combattere i pregiudizi, usali!

Sono disattente. La tecnologia abitua a leggere e guardare a pezzi, saltando mentre si cerca quel che interessa. Inoltre rovescia sugli utenti un bombardamento di stimoli e comunicazioni che essi cercano di maneggiare contemporaneamente; o, in mezzo alla valanga, si perdono quelle che gli sarebbero più utili, o ne fraintendono il significato. Il multitasking, in termini scientifici, non esiste: il cervello continua a fare quello che può, cioè una cosa per volta, ma in frazioni di secondo si attacca e si stacca da quelle si cui si sta occupando in un unico arco di tempo. Nella realtà hanno bisogno che un messaggio sia breve, auto-evidente e ripetuto. Al tempo stesso, però, la ripetizione determina un’attenzione ulteriormente decrescente.

Sono diffidenti. Dovrebbe essere chiaro da quello che ho già detto: raccolgono informazioni e le trovano contradditorie; a conforto di certe idee preconcette, ricevono informazioni che non hanno voglia di vedere smentite; passano sopra le cose velocemente, e se le hanno fraintese mettono in dubbio la parola di chi prova a ricordargli che li aveva già avvertiti di quel che ora gli sembra una novità. L’abitudine a essere invasi dal molteplice della rete li spinge a pensare che, per qualsiasi esigenza e informazione, non si debba mai fare conto sulla risposta di uno solo, e se tra due risposte non c’è uniformità si rafforza la loro convinzione sull’inaffidabilità del mondo. Contestano il principio che esista una fonte ufficiale oppure originaria di un’informazione.

Hanno un sacco di problemi da risolvere. Curioso, no? Con tutte le opportunità offerte dalla tecnologia dovrebbero essere tutti sereni e senza tanti grattacapi pratici. Se proprio dovessimo riassumere in cosa è fondamentale la tecnologia sarebbe: offrire una soluzione a dei problemi. Il guaio è che talmente è forte questa propensione della tecnologia che a volte le soluzioni arrivano prima dei problemi. Mi spiego: un problema è qualcosa che ci assilla. Se non ho la necessità di fare una cosa più velocemente, farla lentamente non costituisce un problema. Ma siccome la tecnologia la soluzione per farla più velocemente ce l’ha, a un certo punto esercita pressioni affinché io consideri un problema farla lentamente. La metà delle notifiche che riceviamo sono soluzioni a problemi che ignoravamo di avere (e veramente non avevamo) prima che una notifica ci comunicasse la possibilità di risolverli.

 

Sono abituate a revocare gli impegni. Se a un appuntamento qualcuno aspetta un amico tenendo spento il telefono, o essendone privo, viene redarguito dopo avere atteso mezz’ora: “Come facevo ad avvisarti che arrivavo in ritardo?”. Ma quello non doveva avvisare, doveva arrivare puntuale! Prima della messaggistica le persone si sforzavano cento volte di più per arrivare in tempo; ora sanno che possono posticipare fino all’ultimo momento. Dato che la tecnologia preme per la velocità, giustamente ci si preoccupa di avere preso (velocemente, e più velocemente degli altri che volevano prenderlo in una situazione di posti limitati) un impegno che a ben vedere era meglio non prendere; e che peccato essersi impegnati a sostenere la spesa per un servizio che poi risulterà offerto a un prezzo più conveniente da un altro fornitore! Ecco che, ad esempio nei viaggi, la possibilità di revocare la prenotazione, l’ordine, il biglietto rappresenta uno dei maggiori appeal di una proposta. Il rimborso è un forte bonus da considerare insieme al prezzo. Ottimo per chi ne beneficia, insidioso per l’impresa se la revoca proviene da troppe persone. La sostanza, nel privato come nel pubblico, è che pregustare un’esperienza è particolarmente gratificante quando possiamo realisticamente immaginare il piacere nel momento in cui la faremo ma anche il piacere nel momento in cui decideremo di non farla, e non ci rimetteremo niente.

 

Mettono le persone dentro il dispositivo. Abbiamo visto che l’aspettativa principale verso la tecnologia è quella di risolvere problemi. La tecnologia quindi nega sé stessa quando ci crea un problema, grave (non dà per effettuato un bonifico), medio (va via la connessione durante il derby) o minore, ma socialmente imbarazzante (squilla il telefono mentre si ascolta una conferenza). Proprio l’ultimo esempio ci rammenta però che, a volte, il problema creato dalla tecnologia è collegato a persone esterne: nello specifico, quello che chiamava intempestivamente. Rimane che non abbiamo spento il telefono, abbiamo spento pure lui. Sottrarsi alla ricerca degli altri è abbastanza frequente: è comprensibile, perché la facile raggiungibilità (chiamo e risponde dovunque sia, gli mando un messaggio e lo legge personalmente) ha alzato troppo le pretese dell’altrui disponibilità, come se dovessero sempre essere a portata virtuale. Ma accade anche che le persone esagerino a sottrarsi: certe volte avevano insistito loro per essere contattati, oppure hanno un ottimo rapporto con chi li cerca, o sanno che quello attende un’informazione con urgenza. Potrebbero contattarlo in un altro momento, mandare un messaggio stringato, indicare un buon momento per il contatto. Invece lo trattano come se fosse il volume dell’audio da abbassare o il climatizzatore da spegnere quando l’aria è diventata fredda, e si irritano se quello continua a cercarli (come se dicessero: ma non si abbassa mai questo climatizzatore? E l’audio ancora non è silenziato?). Il telefono è un oggetto talmente affettivo, totalizzante e capace di contenere mille funzioni che paiono starci dentro le persone, che perciò vengono trattate come funzioni del dispositivo, e disattivate quando danno noia.

Non è questa la sede per suggerire (passando a un superiore livello di approfondimento) al venditore quali sono le tattiche e strategie per trarre profitto dalle dieci tendenze; e neppure per allertare il consumatore su come non diventare carne da macello per colpa di quelle. Piuttosto- astraendosi dallo stretto profilo commerciale- vi sfido ciascuno a riflettere criticamente su quanto si riconosca in ciascuna di esse e nel loro insieme, e a meditare sul rischio che esse rappresentano per l’auto-consapevolezza, la libertà, la qualità della vita e delle interazioni.

Di |2023-05-12T16:10:03+01:009 Dicembre 2022|Limite di velocità|

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