Cosa veramente hanno di eccezionale i divieti legati al coronavirus

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Libertà, emergenza e stato d’eccezione.

Anche chi non ha studiato diritto, adesso ha un’idea di cosa sia uno stato d’emergenza: una sospensione temporanea delle libertà costituzionali determinata da un evento di eccezionale gravità. In realtà, molti tra quelli che hanno studiato diritto, prima del coronavirus, non sapevano neanche loro in che consistesse uno stato d’emergenza,

e non per forza perché fossero stati cattivi discenti. È proprio che, salvo in caso di guerra, uno stato di emergenza che eccezionalmente sospenda le libertà non è previsto dalla Costituzione e, fino al 1992, non era previsto in Italia da alcuna norma di legge. Venne introdotto con la creazione della Protezione Civile, ma ovviamente la paralisi delle libertà e dei diritti era pensata come circoscritta a una zona di territorio limitata. Ecco dunque che i costituzionalisti più insigni, come ad esempio Gaetano Azzariti, hanno dovuto, in quest’occasione, ricavare da anfratti nascosti negli articoli 16 o  32 della Costituzione l’esistenza di un primario diritto alla salute che consente allo stato di restringere – per un tempo limitato – i diritti civili e personali.

Nessuno nel mondo pensa seriamente che sia precluso a un governo di avvalersi, in una condizione obiettivamente eccezionale come quella provocata da una pandemia, di poteri eccezionali (credo che sia un sofisma specificare che il governo non gode di pieni poteri ma si limiti a regolamentare in una situazione in cui si è creato un vuoto di poteri, per via delle sospensione di quelli istituzionali).

Ovviamente, nei paesi democratici, tutti sottolineano che vadano adottate solo le misure necessarie e per il tempo necessario. Come ho già scritto, la necessità la decide chi ha i poteri (realizzando la condizione che il filosofo Carl Schmitt faceva coincidere con la sovranità: sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. Quando la valutazione della necessità non è abnorme, e non funge anche da pretesto per stabilizzare lo stato d’eccezione (come sta accadendo in Ungheria), non possiamo nemmeno dire che siamo fuori dalla democrazia. Se hanno ragione i costituzionalisti, la previsione di una democrazia sospesa è prevista nella stessa carta democratica, a tutela di un valore costituzionale preponderante, la salute (in certi casi limite, insomma, il detto “quando c’è la salute c’è tutto” varrebbe, pare, anche per la Costituzione).

In teoria, però, le libertà sospese dovrebbero essere tutte quelle che effettivamente configgono con il diritto alla salute. Partendo da questo assioma vorrei spiegare perché, secondo il mio punto di vista, le norme restrittive di questo stato d’eccezione abbiano un contenuto ancora più eccezionale. In altre parole, per ammissione degli stessi poteri che governano l’eccezione, le libertà sono state ristrette anche quando non interferiscono con il diritto alla salute collettivo. Per giunta, questa caratteristica viene accentuata dalle ordinanze dei governatori regionali, cioè da produttori normativi di secondo grado. Non possono essere loro a decidere sull’esistenza di uno stato di eccezione (non sarebbero quindi sovrani nel senso di Carl Schmitt) ma possono incrementare i divieti nell’area di loro competenza, e quindi – una volta che è stata introdotta l’eccezione sulla quale non hanno il potere di decidere – possono tuttavia decidere sulla super-eccezione.

Come dicevo, tra questi divieti ve ne sono alcuni che non riguardano di per sé comportamenti dannosi o pericolosi. Prendiamo il limite di 200 metri per uscire di casa. Che male fa chi cammina per un chilometro? Una cosa è vietare le aggregazioni (che però si realizzano anche se scendono tutti insieme gli inquilini di un isolato) e un’altra inserire una distanza non valicabile. E che danno fa un persona che corre? Se non corre in gruppo proprio nessuno, e anzi di solito si tiene lontana dal “passeggio”, non entra in luoghi chiusi e addirittura tiene i polmoni più allenati e perciò più resistenti a un malanno, e per questa via contribuisce alla preventiva deflazione dei ricoveri. Quale rischio alla salute pubblica comporta tenere in casa per settimane i bambini? Perché una coppia che si siede sullo stesso divano quando esce in strada deve camminare distanziata, o meglio ancora mandare in giro solo un rappresentante della famiglia? E si potrebbe continuare: anche rilevando che nelle zone meridionali nelle quali il contagio è assente, se c’è rispetto degli standard di igiene e distanziamento, non pare che lo svolgimento di alcune attività commerciali possa seriamente creare pericoli.

Si potrebbe dire che tutti questi divieti sono contenuti in un unico macrodivieto “non uscite di casa” (da cui lo slogan “iorestoacasa”). Ma non è pensabile che l’articolazione molteplice della vita esterna possa essere compressa in una categoria così totalizzante, tant’è vero che ad esso si è costretti a comprendere diverse deroghe, alcune direttamente necessarie alla sopravvivenza.

L’unica situazione paragonabile a un simile macrodivieto sarebbe il coprifuoco, che però – quando non dipende dall’occupazione militare del territorio come è accaduto recentemente in India per stroncare le rivendicazioni autonomiste del Kashmir – è limitato agli orari serali e notturni; e quando c’è una guerra è circoscritto al momento di pericolo effettivo, corrispondente agli attacchi di un esercito nemico o al disinnesco di un ordigno.

Se poi vogliamo entrare nel merito del “restare a casa”, è molto azzardato sostenere che sotto questa bandiera si schieri l’unico comportamento virtuoso a tutela della salute, al quale contrapporre in blocco tutti quelli esterni. Sempre più forte è il sospetto (e probabilmente la disponibilità dei dati lo tradurrà in una certezza) che stare a casa è uno dei veicoli di contagio più significativi, talvolta per l’insalubrità condominiale e più spesso perché chi necessariamente viene da fuori (il medico o l’operaio, ad esempio) contagia pure i familiari. Per paradosso, la migliore indicazione per contenere il virus sarebbe “state tutti fuori, all’aria aperta”. Se tutti dormissero in una tenda singola, a due metri l’una dall’altra e tale distanza fisica tra loro mantenessero al risveglio, e i commercianti depositassero la spesa fuori dalla tenda mentre i clienti dormono, le possibilità di contagio ne uscirebbero notevolmente abbattute. Ovviamente questo non è possibile, e per necessità si ripiega sul “restate a casa”. Che però, come ogni scelta secondaria dettata dalla necessità, non è una panacea; e quindi non è idoneo a qualificarsi come un sensato e non scomponibile macrodivieto.

La ragione di questi divieti, come dicevo, è stata reiteratamente esplicitata dall’aggravio che il libero svolgimento di certe condotte provocherebbe sui controlli. Bisognerebbe verificare che chi è lontano un chilometro e duecento metri da casa stia veramente passeggiando e non invece recandosi a casa di un amico; controllare che quelli che corrono non si riuniscano in gruppo; che quelli che camminano tenendosi per mano vivano veramente nella stessa casa; che i bambini non si mettano a giocare con altri bimbi in piazza, e così via. Riepilogando: non sono vietati solo i comportamenti potenzialmente pericolosi ma anche quelli dichiaratamente non pericolosi,  che però possono essere introduttivi di un comportamento pericoloso, per il fatto che sarebbe oneroso controllare che dal comportamento non pericoloso qualcuno non passi allo stadio successivo del comportamento pericoloso.

Per le persone che rispetterebbero le regole la condizione è peggiore di quella del detenuto. Esse subiscono di fatto la restrizione di un comportamento irrilevante sotto il profilo sanitario, perché altri hanno approfittato di quel comportamento per realizzare abusi. È un po’ come se ai detenuti fosse precluso di ottenere i benefici penitenziari perché qualcuno se ne è servito per evadere. La diffidenza verso il singolo cittadino, in questo stato di emergenza, è dunque più elevata di quella solita verso un detenuto.

Si dirà che la condizione di emergenza è temporanea, e in nome della salute collettiva (e anche della sua) non dovrebbe essere per il cittadino un grande sforzo accettarla, anche in questa forma sovrabbondante.Oltre tutto la quota di controlli esercitata mostra che davvero ci sono delle trasgressioni. Forse ne diverrà il simbolo la parlamentare che viaggiava verso il mare nel giorno di Pasquetta e che ha persino ritenuto di trarre dalla sua qualifica non una maggiore onta bensì un lasciapassare.

Giustamente ci si focalizza, come pernicioso effetto collaterale più significativo, sul danno economico profondo, cioè sul rischio concreto che molte persone vengano, per effetto delle misure (anche di quelle realmente necessarie per tutelare la salute, in quanto volte a impedire comportamenti pericolosi), a trovarsi senza lavoro e a serio rischio di indigenza, e quindi presto con la salute in bilico. Ma questo fenomeno espansivo dell’eccezionalità su cui mi sono sin qui soffermato non va sottovalutato e archiviato con troppa leggerezza, per almeno quattro ragioni.

  1. La prima è che una comunità incapace di autoregolarsi in una situazione di grave emergenza si trova a uno stadio rovinoso di civiltà. Non si tratta solo della disciplina del singolo ma di quella reciproca e amichevole vigilanza che in nome di un obiettivo comune induce i singoli a conformarsi alla norma d’eccezione per reciproco rispetto. Non è cosi per tutte le popolazioni, tant’è vero che gli scandinavi o i giapponesi hanno a lungo esitato a stabilire restrizioni per divieto (eccedendo in verità dal lato opposto, e producendo un danno sanitario).
  2. La seconda è che uno stato la cui produzione normativa è resa irrazionale per carenza o ipertrofia a causa della sua incapacità di controllo, o della debolezza della sua forza persuasiva e della sua stabilità di interazione con i cittadini, è a sua volta uno stato disgregato e privo di autorevolezza, e in parte di autorità: è uno stato in crisi di legittimazione. In condizioni di normalità la carenza dello stato produce lassismo, come nel caso dell’eccesso di autocertificazioni : fate da voi perché ci metteremmo troppo tempo per controllare; in una situazione di emergenza produce abuso: non fate niente perché ci metteremmo troppo tempo a controllarvi.
  3. La terza è che la moltiplicazione dei divieti favorisce la tattica dell’autorità che intende deresponsabilizzarsi. In questo mondo parallelo in cui il peccatore è colui che non resta a casa, il governatore e l’assessore alla sanità della Lombardia o il presidente della Regione Piemonte continuano ad addebitare la curva non discendente del contagi alle persone per strada invece di approfondire cosa abbia difettato nella loro gestione strettamente sanitaria dell’emergenza (ci dovrà pur essere una ragione per cui in Emilia Romagna e in Veneto le cifre hanno preso una piega differente) e di meglio spiegare come sia nata la brillante idea di inviare i contagiati o i medici impegnati per il Coronavirus nelle case di riposo per anziani, tardando – pare – anche a fare in quella sede i tamponi richiesti.
  4. La quarta è che spingere al divieto tout court asseconda la regressione verso un esercizio paternalistico del potere, per effetto del quale il governatore del Veneto può descrivere l’autorizzazione alla grigliate in giardino durante la giornata pasquale quale concessione motivata dalla sua fiducia verso i cittadini (ribaltando quella che sarebbe la regola ipotetica in una democrazia, cioè che i cittadini godono della fiducia sino a prova contraria). C’è il rischio che le persone si abituino a una sudditanza – forma di cittadinanza non esattamente democratica e che rappresenta il primo gradino verso lo stato autoritario – nella quale il potere rappresentativo evapora a fronte della delega al capo. Non è un caso se la quasi totalità dei capi di governo enfatizza la prima persona singolare nell’annuncio delle decisioni.

In conclusione, mentre si addita nel tracciamento digitale a fini sanitari lo spauracchio per il futuro delle nostre democrazie, sono passate senza nemmeno il filtro della discussione critica modalità operative che già disseminano risvolti insidiosi. Sperando che, nella pur ridotta normalizzazione della nostra organizzazione sociale in costanza di virus, questi aspetti più estremi vengano riassorbiti, vale intanto la pena di tenerli a mente. Perché, come spesso capita in tutti i campi, l’emergenza e l’eccezione mettono a nudo che qualcosa, già nel quotidiano, non funzionava per nulla bene.

Di |2021-01-02T08:38:53+01:0017 Aprile 2020|10, Limite di velocità|

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