Il sussurro del mondo di Richard Powers

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Il miglior romanzo pubblicato in Italia nel 2019

Sarebbe profondamente ingiusto pensare che Richard Powers debba ringraziare Greta Thunberg per la sua vittoria nel Premio Pulitzer. “Il sussurro del mondo” è un romanzo originalmente ma profondamente ambientalista, e si potrebbe malignare che sul premio abbia soffiato la temperie ecologista.  In realtà “Overstory” (questo è il titolo originale, sta per sovrastoria – la storia che parte dal principio e include il piccolo pezzo della storia dell’uomo; ma è anche un gioco linguistico su Overstorey che è un termine utilizzato nel campo dello sviluppo delle foreste) è un meraviglioso romanzo epico; e Powers può in ottima fede riferire agli intervistatori la sua intenzione artistica (rendere le piante protagoniste del romanzo, reagire alla notizia che in America è stato distrutto o è in corso di distruzione il 98% delle foreste vergini) e renderci partecipi di come ha trascorso gli ultimi sei anni (studiando le piante, osservandole sugli Appalachi, comprando una casa con tot acri di terreno che può calpestare senza incontrare presenza vivente che non siano le specie arboree che vi ha piantato): ma il suo romanzo, essenzialmente umanista, travolge per la potenza disordinata dei sentimenti che vi sono infusi. La coscienza rimane l’ecosistema del libro, anche se si esce notevolmente acculturati sulla biodiversità vegetale e introdotti a una forma di sacralità ambientale. Ciò non toglie che vi sia un messaggio politico molto forte di opposizione allo specismo e all’Antropocene (e d’altronde l’opposizione non potrebbe essere sollecitata senza fare leva proprio sulla coscienza umana).

 

Il libro assume formalmente una struttura arborea, diviso com’è in quattro parti: radici, tronco, chioma, semi. Le radici consistono in nove racconti distinti, che ben potrebbero costituire un’autonoma edizione e concorrere egualmente per un premio letterario significativo (direi anzi che la loro libertà dall’assoggettamento a un disegno centripeto e ideologico li rende la parte più bella del libro). A ogni racconto corrispondono un personaggio – di solito sbocciato dentro una storia familiare – e un albero, che incrocia il destino del personaggio come testimone, salvatore, simbolo, ossessione, trappola quasi mortale. È persino riduttivo definirli racconti: sono microromanzi condensati. Dopo le prime duecento pagine le nove radici vanno a innestarsi nel tronco, e i personaggi si incrociano trovandosi tutti, in un modo o nell’altro, a difesa degli alberi, alcuni anche fisicamente, passando da una militanza attiva all’ecoterrorismo, con i loro nomi di battaglia, ovviamente arborei a loro volta.

 

Per il suo carattere epico il romanzo è stato paragonato da Margaret Atwood a Moby Dick. Come in quello, credo che la sua forza non stia nell’intreccio: Powers ha confessato di avere sperimentato dodici bozze avanzate per definire il modo in cui le nove storie sarebbero confluite e avrebbero proseguito il suo sviluppo. Ciononostante le dinamiche che fanno incontrare ed agire gli eroi sono quasi banali, o a volte inverosimili. Sono l’elemento più debole del libro.

La sua forza impressionante è la scrittura. Per la cura stilistica di ogni frase il romanzo ha qualcosa del poema. Powers ha scelto la forma del presente e dei periodi brevi. In questo modo ha scansato il barocchismo, ma non ha minimamente prodotto una testualità prossima allo snellimento espressivo. Nella didattica delle scuole di scrittura creativa il presente e il susseguirsi di frasi brevi servono a imprimere ritmo alla narrazione. Qui la densità di ogni passaggio fa sì che il presente serva per scolpire, e la monoperiodicità spinge verso l’aforisma. Il sussurro del mondo imita la natura nel suo lento e invisibile modellarsi, e invita il lettore ad assumere l’atteggiamento contemplativo del camminatore all’aperto. È incredibile la quantità di metafore vegetali che Powers riesce a distillare nel mondo delle relazioni umane: non si capisce come una persona che non si è occupata solo di questo tema per tutta la vita abbia potuto arrivare a padroneggiarlo con un’esattezza tale da coltivarlo per una costante creazione di significato.

Nonostante almeno la metà dei protagonisti non sia simpatica e il loro stesso modo di approcciare la causa ambientalista non possa considerarsi equilibrato, tutte le loro vicende individuali si aprono a un lato intenso e tenero. Dal punto di vista collettivo, invece, il momento più affascinante è la descrizione della tensione tra gli attivisti ambientali che salgono sugli alberi per impedire che vengano abbattuti e i boscaioli che da quella forma di economia traggono il loro sostentamento: una miscellanea di agonismo esistenziale, velleitario pedagogismo rivoluzionario, nuda materialità dei bisogni e inattesa riscoperta di solidarietà.

 

La solidarietà tra gli esseri umani, tuttavia, capita quasi sempre per accidente, ed è segnata dalla transitorietà, rapidamente avvicendata dall’istinto individualistico. È questo il più marcato confine che Powers disegna tra l’ecosistema nel suo complesso (e le piante nello specifico) e la società umana.

Una dei nove protagonisti è la ricercatrice di botanica Patricia Westerford, che scrive l’inatteso best-seller La foresta selvaggia nel quale, perfezionando le tesi che le erano costate l’estromissione dall’ambiente universitario, dà conto dell’intelligenza collettiva degli alberi che instaurano tra loro un sistema di comunicazione adatto persino ad organizzare una resistenza contri i pericoli.

 

Sta succedendo qualcosa di meraviglioso sotto terra, qualcosa che stiamo solo imparando a vedere. Tappetini di associazioni micorriziche collegano gli alberi in enormi e intelligenti comunità sparpagliate lungo centinaia d’acri. Insieme, formano vaste reti di scambio di prodotti, di servizi e informazioni…

 

Il vero conflitto non è però uomini vs. alberi: è quello tra l’uomo è la natura. Tant’è che gli alberi non vengono difesi solo quando sono vivi ma anche quando sono morti perché garantiscono, attraverso le muffe e i batteri, la prosecuzione del ciclo vitale. L’uomo dell’Antropocene è il più insidioso fattore di interruzione e deviazione dell’autopoiesi evolutiva.

 

Ognuno dei personaggi si rivolge alla causa ambientalista, segnato da un trauma o da una malattia, come se – una chiave indubbiamente pessimistica – non ci si potesse attendere un distacco dalla comprensione di ciò che va al di là del bisogno umano a breve termine se qualcosa non scuote la corsa eterodiretta e ottusa dell’esistenza individuale. Ecco che le metafore coniate da Powers sembrano lenti prestate ai suoi personaggi perché possano osservare il mondo con uno sguardo nuovo. Osservare ma anche tradurre in ascolto. Un interessante rovesciamento operato del romanzo è scuotere la presunzione che l’uomo ha di far coincidere la sua attitudine con quella di inventare storie: le storie sono iscritte nei codici della natura, e l’uomo mostra semmai il limite di non saperle leggere.

Ciò che Powers mostra di continuare ad apprezzare degli uomini è semmai ciò che con la gran parte delle specie hanno in comune, e che la cultura ha il potere di affinare: tramandare generazionalmente, in quella dinamica sottile compresa tra il conservare e l’evolversi. Nelle nove storie che formano le radici, grande peso è la trasmissione dal padre (figura alla quale Powers è abissalmente più interessato che a quella materna) ai figli, e l’essenza profonda di costoro è segnata da quel che il genitore è riuscito ad instillare o dalla mancanza che il figlio si impegna a ricomporre.

Alto sarebbe il rischio che il romanzo scivolasse su una china patriarcale, scientista, conservatrice, eco-estremista, animista o new age. Powers sapientemente sfugge a ciascuno di questi tranelli, e con la sua profondità che scende anche sotto le radici, sino alle viscere delle terra, estrae dalla sofferenza umana e delle piante il grande romanzo olistico di questa prima parte del secolo, regalando a tale olismo il concime fertile della sua scrittura materica e visionaria.

 

Richard Powers

Il sussurro del mondo

Traduzione di Licia Vighi

La Nave di Teseo

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:17:25+01:0018 Dicembre 2019|12, Il Nuovo Giudizio Universale|

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