Recensione di “Ghosteen” di Nick Cave

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Nella maggior parte delle lingue non esiste una parola corrispettivo inverso di orfano, che designi chi ha perduto un figlio. C’è nella lingua ebraica, shakul, in arabo con la stessa radice, thaakil, in sancrito vilomah, che letteralmente sta per “avverso all’ordine naturale (l’ho imparato dall’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, Il colibrì, del quale scriverò prossimamente). Non esiste neppure una parola che designi il fantasma di un ragazzo, la sua anima migrante, ma l’ha coniata Nick Cave, ed è ghosteen. E soprattutto Nick Cave ha lasciato una traccia sublime e con pochi equivalenti artistici di queste due condizioni, in un disco che completa una trilogia ed è legato al dolore per la morte tragica del suo quindicenne figlio Arthur. Accadde mentre stava scrivendo il disco che divenne Skeleton Tree, che prese per questo una piega dannata, buia, sepolcrale. In questa commistione di arte e vita che Cave ha voluto percorrere, rompendo anche il tradizionale riserbo e aprendosi alle domande del suo pubblico, Ghosteen rappresenta la purificazione finale, lo scioglimento della maledizione in una luce di speranza. Per il tema e il lirismo, qualcuno ha giustamente accostato Ghosteen al capolavoro letterario di Saunders, Lincoln nel bardo,

e altri hanno paragonato la poesia dei testi, mai così alta, a Yeats. Sono canti sulla perdita, ma anche sul ricominciare, e sulla certezza che una grande perdita non è mai del tutto e in qualche modo, che prefigura ma non banalizza una forma di nuovo incontro, non è per sempre. Al tema dominante del figlio, Cave affianca altri personaggi e momenti di amore, colmando il vuoto che separa la tragedia particolare dalla sua origine universale. È al di fuori del requiem, è distillato di spiritualità che trabocca, dilata, confonde.

 

L’esperienza dell’ascolto è emotivamente devastante, è quasi impossibile spegnere il groppo in gola. Il perno è certo la voce, più estesa che mai, rotta sino a un falsetto del tutto insolito per Cave (ma quanto struggente!) e la musica al primo ascolto scompare nella sua solo apparente rarefazione. Già al secondo ci si rende conto però della sua potenza, racchiusa nell’ispirata essenzialità di un sintetizzatore, qualche tocco di piano, qualche accenno orchestrale. Sembra oltre-umana, come il canto di Nick Cave. E rompe del tutto con le sue ballate decomponendo la forma canzone e stendendo, grazie a Warren Ellis, un tappeto sonoro di pastoso sinfonismo che lega tutti i pezzi tra loro e rende vano ordinarli per preferenza. Il testo, quando ha seguito la folgorazione di un’immagine sontuosa, torna poi a rattrappirsi in sommesse ripetizioni che non sono desolati appelli nell’assenza ma puntelli di una memoria che promette di non arretrare e di attendere.

 

Nick Cave

Ghosteen

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:17:27+01:0022 Novembre 2019|13, Il Nuovo Giudizio Universale|

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