Recensione del film “EO”

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L’asino non viene messo in punizione vicino alla lavagna e con le spalle alla classe ma in prima fila con gli occhi ben piazzati sul mondo e centrati dall’occhio della telecamera. L’asino in effetti, non rappresenta qui, la metafora di un essere umano zotico e zuccone bensì la rigorosa materializzazione dell’animale protagonista nella sua asinina soggettività, attraverso la quale viene filtrato il film, che consiste in effetti nel punto di vista di un asino sugli esseri umani: per come lo possiamo dedurre, giacché non si tratta di un animale disneyano che parla (e che è per lo più un essere antropomorfizzato, un umano sotto mentite spoglie) ma di un vero somaro che raglia, e però nelle modulazioni di quel suo verso, nell’ostentata capacità di autodeterminarsi (con quella testardaggine!), nella trasparente purezza dello sguardo elevato al primo piano cinematografico riesce a farci intendere in modo inequivocabile il suo percepire, sentire e decidere, spinto sino a un pensare e giudicare: meglio della media umana, e del resto questo è il senso del film, trattare del punto di vista di un asino per trattare criticamente degli uomini che, se non fosse contradditorio usare la metafora in rapporto a questo film, sono davvero degli asini.

Tanto per inaugurare l’anno con la classificazione più in voga nella critica – che affigge l’etichetta di road movie a qualsiasi pellicola ecceda una paludosa stanzialità – possiamo anche definire Eo un atipico road movie (obiettivamente il nostro somarello passa, obtorto collo, parecchio tempo in transito e su mezzi gommati); più interessante, in termini di storia cinematografica, sottolineare che l’impostazione di Eo non è una novità assoluta. Mal contato, è il terzo film recentissimo girato dalla prospettiva animale, preceduto da Gunda di Victor Kossakowsky e Cow di Andrea Arnold, ma soprattutto è, se non esattamente un remake, un omaggio a Bresson e al suo Au hasard Balthazar, stesso animale, stesso inizio e analoga fine. L’opera di Besson era tuttavia più ascetica e metafisica, mentre l’ottantaquattrenne regista polacco Jerzy Skolimowski (il lavoro con la macchina da presa pare davvero un segreto per la longevità intellettuale) carica di grottesco il crudo realismo, punta sull’eccesso e vibra in lui la mondana irrequietezza per l’ingiustizia terrena.

Le peripezie di Eo sono numerose e vale la pena di lasciarne la scoperta allo spettatore. Basti qui dire che cominciano da un circo, nel quale l’asino si spacca di lavoro ma pure gode dell’amore della sua padrona, che sognerà di ritrovare quando, sbaraccato il circo per debiti e proteste animaliste, viene sballottato in ambienti spesso inconfortevoli e disempatici, risucchiato in situazioni che comprendono il bizzoso nevroticismo dei cavalli addestrati in stile lipizzano o il furore vandalistico e assassino degli ultrà calcistici, oltre al cinismo di varie tratte animali. L’ultimo terzo del film si svolge in Italia, per evidenti esigenze di coproduzione: ed è una disgrazia per la fluidità e coerenza della trama che inopinatamente si decentra su alcune vicende umane (in particolare una assurda che vede in scena Lorenzo Zurzolo e Isabelle Huppert) ma una fortuna per le sorti della pellicola, che forse a quella coproduzione deve la sua presenza a Cannes, dove le è stato assegnato il premio della critica. Una scelta, quest’ultima, forse opinabile ma non certo scandalosa per un’opera che riesce a essere sperimentale e naif, sistemata digitalmente e vintage, con diversi spunti comici ma inesorabilmente tragica, cupa e fiabescamente onirica, di varia dotazione artistica, inclusa una potente colonna sonora.

Pur imperniando il film su un protagonista, uno specifico asino, Smolinowski sceglie di chiamarlo onomatopeicamente come il raglio, senza che ne abbia uno suo (di nome), come a preservare il valore universale della metafora. D’altronde, plurale è stata anche l’interpretazione attoriale, suddivisa in cinque, anche perché quando un asino ha deciso che una scena proprio non vuole girarla è più pratico arruolarne un altro che convincere lui. Almeno per quest’aspetto i luoghi comuni hanno ricevuto conferma.

EO

Jerzy Skolimowski

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2023-01-13T14:12:02+01:0013 Gennaio 2023|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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