Recensione del film “Barbie”

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Barba? Barba barba barba! Ciao barba! Ehi, ciao Barba! Che barba, eh? Si barba, proprio una gran barba. Buona giornata barbosa. Siiiiiiiiiiiiiiiii. Ecco, salvo Barbie al posto di Barba questo è il primo quarto d’ora del film Barbie diretto da Greta Gerwig e da lei scritto col compagno Noah Baumbach, spenta la promettente illusione iniziale dischiusa da un rifacimento parodistico dell’overture di 2001 Odissea nello spazio. Certo stare lì a scambarbiarsi ciao Barbie (che barba) è inevitabile perché siamo a Barbieland, dove tutte le Barbie del mondo, idee platoniche delle Barbie possedute dalle bambine nel mondo reale, ripetono la stessa giornata felicemente insulsa per l’eternità, non perché siano naufraghe in un loop temporale, ma come naturale esito della perfezione barbina. Ma a una di loro, che in una delle migliori intuizioni di sceneggiatura, si definisce una Barbie-stereotipo (Margot Robbie) capitano un paio di accidenti, tipo pensieri di morte e accenno di cellulite, e la diagnosi della Barbie-stramba, il soggetto alternativo della landa, è che deve andare nel mondo reale a chiarirsi con la bambina che sta mescolando la propria coscienza con la sua.

Così la Barbie-stereotipo parte per la meta, insieme al suo inutile Ken (nella tradizione del giocattolo i Ken sono orpelli) e trova un mondo ben diverso da quello che immaginava modellato dall’ideologia delle Barbie e governato al femminile. Entra contro la sua volontà in conflitto con la casa madre Mattel e conosce una donna che per lavoro la disegna, è la madre della bambina che cercava ed è in realtà lei la causa del basculamento esistenziale di Barbie. Chi però trae apparentemente più profitto dalla trasferta è Ken che riceve l’epifania del patriarcato e la trasferisce nell’universo rosa di Barbieland. Qui scatta la funzione pedagogica del film! Comune solidarietà e presa di coscienza delle donne, crisi d’identità del maschio, costretto a rotolarsi nel fango della sua vacuità domandandosi “Ma chi sono io? Cosa devo fare?” (e già prima della decima volta vorresti suggerirgli: “Sparati!”, anche perché l’improduttivo lamento ti è venuto a noia)

Quel che deve essere chiaro di Barbie è che, molto prima e molto più che un film, è in primo luogo una gigantesca operazione di marketing della Mattel che lo produce e che, mostrando un’eccellente consapevolezza dei meccanismi contemporanei di spinta ai consumi e di re-brandizzazione, ha costruito un’opera di auto-derisione che darà eccellenti frutti sul mercato. Che il film sia proposto come veicolo dell’ideologia femminista è ridicolo: non che fosse realistico attendersi citazioni di Judith Butler, ma i sermoni edificanti sul maschilismo e l’emancipazione femminile che tirano le fila nell’ultimo terzo del film sono di una superficialità imbarazzante, una new age rosa, un bignamino, uno scadente pensare positivo e dunque a dirla tutta un sequestro del femminismo ricondotto stesso sotto le ali del neoliberismo e dell’infantilismo, mentre il maschilismo ne esce innocentemente caricaturizzato. In Barbie il materiale parodiante diventa parodiato, e le testimoni di un simile scacco sono la madre e figlia del mondo reale, che finiscono linguisticamente (siiiiiii) abbarbiecate a quell’allegro baillame omologante. Non meno significativo è che lungo quella che, per disperazione, si potrebbe definire l’unica linea evolutiva, la serie di trasformazioni interiori e pulsionali di Ken, le figure femminili vengono progressivamente appiattite l’una sull’altra, indistinguibili nell’identità, come se fosse infine precluso di liberarsi dalla maledizione di Barbie.

La cosa migliore del film sono alcune gag divertenti: diciamo che quando riescono sono esilaranti, ma saranno 15-20 in tutto, come a dire sette minuti su due ore, ciò che in certi momenti lo rende una visione aziendale dalla corazzata Barbiobkin. Quelle gag mostrano solo che se il film avesse avuto il coraggio di seguire sino in fondo il percorso demenziale-sgangherato-postmoderno ne sarebbe uscita forse un’ottima cosa invece che un incrocio di terza categoria fra il Truman Show e Toy Stories. Se è per questo anche gli accenni di musical toccano punte interessanti. Ma, sia sulla soglia della comicità che del discorso sociale, la pellicola fa la stessa fine che nella fiction fa il consiglio di amministrazione della Mattel (è una delle brillanti trovate che dicevo): non possono inseguire la fuggitiva Barbie perché hanno dimenticato in ufficio il badge per passare il tornello, che pure potrebbero scavalcare sollevando appena la gamba.

La scenografia e i costumi sono abbaglianti ma era anche relativamente facile attingere a quel carrozzone di luccicante cromatismo kitsch e non è il caso di sdilinquirsi di meraviglia, come se si trattasse di Lawrence d’Arabia. Tutto sommato, invece, non era scontata la fluidità della recitazione attoriale, data l’ambiguità dello statuto stereotipo/crisi dello stereotipo, soprattutto per i due protagonisti. Che in quella cornice Margot Robbie riesca a far trasudare un senso di sincerità è una specie di miracolo. Ryan Gosling, fra l’altro, per come canta meriterebbe che gli cucissero intorno un remake di Jesus Christ Superstar. La sua collezione di ruoli diversi suggerisce la nascosta esistenza di una Goslingland dove ogni giorno il Gosling Blade Runner, il Gosling La la land (altro film che te lo raccomando) il Gosling le Idi di marzo eccetera cominciano la loro giornata Ciao Ryan ciao Ryan ciao Ryan fino a che il Ryan Gosling stereotipo entra in crisi perché comincia ad avere pensieri di morte e un po’ di trippa sotto l’addome.

Barbie

Greta Celeste Gerwig

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Volevo fare un piccolo regalo ai lettori del wrog, in questa Pasqua tanto strana. Così ho pensato di raccogliere in un eBook tutte le recensioni cinematografiche scritte in oltre tre anni.

 

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2023-08-04T08:56:25+01:004 Agosto 2023|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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