Recensione del film “Ali & Ava”

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Il film che ci coinvolge è capace di farci immedesimare nei personaggi al punto da sognare di essere il protagonista, ripeterne i gesti eroici, le scelte coraggiose: quando si è bambini o anche ragazzi, anzi, persuadersi per un attimo di essere veramente quel personaggio. Ma di questi tempi bigi e spesso socialmente noiosi, possiamo considerare sufficiente che il cinema ci proponga un paio di tipi che ci piacerebbe invitare a cena. E neanche per farci chissà quali discorsi (sai mai che pure questi, addentrandocisi, attacchino col Donbass e il vaccino che è più nocivo della malattia), ma per godere della loro capacità di entusiasmarsi, della loro spontaneità e soprattutto della totale assenza di sovrastrutture. Ecco, Ali e Ava sono esattamente questo: i semplici protagonisti di una storia semplice, non identificati con i cappi culturali che cercano di stringergli al collo, senza nessun infingimento, non sono ossessionati dall’idea che devono dover dimostrare qualcosa a qualcuno, e sono pronti a sondare con curiosità l’orizzonte altrui. Il miracolo della regista britannica Clio Barnard è di costruire due personaggi di finzione più autentici di molte persone reali. E che intendono benissimo cosa significhi amarsi, anche se non saprebbero spiegarlo, e neppure passerebbe loro per la testa di farlo.

Siamo in una cittadina inglese: Ali è un ex dj pakistano che ora vive gestendo degli affitti e Ava un’assistente scolastica. La simpatia dell’allegrone Ali è travolgente e indiscussa, e però nel segreto cova un magone: sua moglie è ormai nulla più che una coinquilina e rimane a casa giusto per completare i suoi studi e non rischiare il rimpatrio, e lui ne è ancora innamorato. Ava è vedova di un violento ubriacone neonazista, dal quale era peraltro separata, è madre di quattro figli da due mariti e ha una pletora di nipoti cui badare. Ali e Ava provengono da due mondi sideralmente distanti, e anche solo la prospettiva di un loro avvicinamento fa scattare l’opposizione delle famiglie allargate (in particolare quella del figlio minore di Ava, che vive nel culto del genitore e ne ha conservato gli anfibi). Il punto di incontro è la scuola d’infanzia dove Ava funge da insegnante di sostegno per la figlia di amici inquilini di Ali. Il punto di forza di Ali: è generoso. Il punto di forza di Ava: è una che si fida.

Qual è il tassello decisivo per creare il legame? La musica: è giusto informare che la sua presenza nella pellicola è appena inferiore a quella di un musical. Non è che i due in partenza abbiano gli stesso gusti: Ali è per la techno e fa qualche apertura al punk, detesta il folk che attrae Ava. Ma la musica ha per entrambi un ruolo essenziale nel riempire gli spazi, nel contenere i disagi e i dolori o nell’accompagnare le emozioni positive. Ali, fuori dall’abitato, si piazza sul tetto della macchina e batte il ritmo con i piedi sulle note percussive che si spandono nell’aria; Ava infila gli auricolari sul pullman e si ritaglia un angolo di confidenza con sé stessa. Non ci sarà bisogno di farsi concessioni. La musica li afferrerà in modo indistinto, come sublimazione, incantamento e trascendenza. E Ali ha un bel dire che non gli garba il folk, però a un certo punto Bob Dylan…

Non è una storia d’amore tra belli, come si usa nei film, e questo aiuta a cogliere quel che di affascinante hanno entrambi. Come in After love (sia pure in modo meno marcato) veniamo posti di fronte a una realtà sociale nuova, la possibilità che l’immigrato faccia parte di uno strato sociale più elevato del nativo. Il ritratto suburbano e proletario (in senso ampio), insieme alla delicatezza del tono ricordano Ken Loach. Non direi che è un film puritano ma che abbiano fatto sesso lo deduciamo da pudici risvegli. Clio Barnard osa abbastanza in termini di immagine, propone qualche parte con camera a mano, e in molte altre immagine destrutturata, iper-dinamica, simpaticamente caotica, cromaticamente inafferrabile. Il film è cronologicamente lineare, senza alcun feedback, ma siccome non ci sono sviluppi della trama altamente drammatici quasi sempre può scegliere liberamente a quale evento passare da quello precedente, e il risultato è sempre molto felice, anche in termini di montaggio. I due interpreti di un simile gioiello del cinema indipendente, Adeel Akhtar e Claire Rushbrook sono assolutamente eccezionali. Se veramente, come ha scritto il Guardian, i dialoghi di Sally Rooney non perdono un colpo e incendiano le pagine, allora questa è la sceneggiatura del Macbeth.

Ali e Ava

Clio Barnard

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-04-29T14:44:37+01:0029 Aprile 2022|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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