Brevissima storia delle vacanze

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La discesa di un’ora e venti minuti dalla barca per calpestare il suolo e la quiete di una pacifica isola dell’Egeo,

il risucchio digitale del dipinto in un museo sporgendo lo smartphone fra le quattro file di visitatori che precedono, la furiosa ricerca dei souvenir in una botteguccia. La pretesa di condensare in un centinaio di righe la storia delle vacanze non è forse uguale alla presunzione che coltivano i riti turistici mordi e fuggi di appropriarsi low time dell’intimità di un luogo?
Forse sì, eppure è difficile esimersi dalla tentazione, mentre è in corso l’umana migrazione estiva più fiacca dell’ultimo cinquantennio. Ironia della sorte, in uno studio del 1998 il World Travel and Tourism Council fissava proprio nell’anno di grazia del 2020 il picco degli spostamenti vacanzieri, che avrebbero coinvolto 1 miliardo e 600 milioni di abitanti dei circa 8. Tiè! Invece il sonno della pandemia è calato sulla palpebra del turismo mondiale, e aleggia il sospetto che una sua trasformazione sia irreversibile, almeno nel medio periodo. Perciò, vale la pena di capire intanto, queste benedette vacanze, come fossero nate e come si siano poi trasformate.

Premettiamo che la vacanza è concetto moderno che consiste in: interruzione del lavoro più viaggio. In realtà si può essere in vacanza dal lavoro anche rimanendo a casa, ma fare le vacanze implica un surplus di dinamismo. Pur se il loro senso, funzionale e ideologico, si è intrecciato con il paradigma produttivistico (che legittimano costituendone una pausa e un obiettivo intermedio) le vacanze dei giorni nostri hanno tre elementi storici fondatori, e solo l’ultimo riguarda l’alternanza ozio-lavoro.

Il primo sono le stazioni termali, che tra la fine del Settecento e l’origine dell’Ottocento pensarono di rendere più allegro il soggiorno salutista allestendovi intorno un frizzante ambiente mondano e valorizzando la cornice naturalista (o anche estendendola in appendici stilizzate). Insomma, qualcosa di simile ai ristoranti che nell’ultimo quinquennio hanno stretto l’alleanza tra il riduzionismo bio dell’alimentazione e l’opulenza coloristica delle pietanze, convincendo il pubblico che mangiare sano è una grassa forma di divertimento. Delle stazioni termali, Bath aprì la strada, e poco dopo le località marittime del Nord (a partire da Travemunde, presso Lubecca, nel 1802) le emularono, profittando delle tesi mediche che lo shock di un bel bagnetto gelido rimettesse in sesto l’organismo.

 

L’altro antenato delle moderne vacanze, certo il più nobile, fu la tradizione del Grand Tour, il viaggio iniziatico di un rampollo aristocratico, per lo più in compagnia di un precettore, per contemplare le meraviglie artistiche nel Mediterraneo, i paesaggi romantici e le civiltà d’Oriente. Vi sembrerà strano mettere in collegamento Stendhal e i viaggi organizzati, ma la parola turista deriva proprio dal Tour (che poi offre il senso di quella circolarità implicante il raggiungimento di un punto lontano e il ritorno a quello di partenza).

E il terzo propulsore del concetto di vacanza furono le grandi interruzioni dei ritmi novecenteschi: ovvero la chiusura dell’anno scolastico, che consentiva alla famiglia agiata di spostarsi in campagna per la villeggiatura, e l’introduzione delle ferie pagate, che aprirono la strada al turismo di massa, in realtà concretizzatosi a partire dagli anni Settanta.

Se questi sono gli antenati della vacanza, la parola che meglio le si attaglia per fotografarne l’essenza nel Novecento è sensualità; e quella che più le si confà per questo scorcio di secolo è esotismo.

La svolta sensuale si ha quando le persone scoprirono l’acqua calda. Ovvero, superata una lunga tradizione sulla nocività del bagnarsi a lungo (peggio che mai col sapone, ma questo non c’entra), spostarono la loro attenzione dalle rive del Nord a quelle mediterranee e inaugurano quella che oggi propriamente chiamiamo la stagione balneare. Il suo dato più innovativo è la svestizione, gradualmente sempre più disinibita, del corpo: il che suggerisce di cominciare e prendersi cura del proprio per renderlo più attraente, e osservare meticolosamente quello altrui, specie nel ramo dell’altro sesso. La spiaggia diventa il principale luogo di educazione per l’interazione corporea pura e per lo sguardo. Il senso liberatorio della svestizione favorisce la seduzione, e la vacanza estiva diviene uno spazio franco nel quale concedersi certi abbandoni che nel tran-tran invernale sono considerati più sfavorevolmente. Negli anni ’60 si arriverà a qualificare l’estate sotto il segno delle quattro “s”: sea, sand, sun e sex (portati a cinque grazie allo spirit trangugiato dai più fracassoni). D’altro canto anche coloro che preferivano frequentare boschi e vette incontaminate, immergendosi nell’ebbrezza del pittorico o il sublime (inteso in senso romantico e riferito a un habitat perturbante e inospitale) sperimentavano profondamente, ma in modo non erotico, la loro sensualità, sottoponendo il corpo a sforzi e tensioni che ne esaltavano le percezioni.

Quanto all’esotico, esso è certo nato con il viaggio stesso ma per buona parte del Novecento si è dovuto confrontare con l’inaccessibilità di oltre metà del mondo (salvo che per pochi temerari). Il massimo dell’esotismo rimaneva italiano e brutalmente stereotipizzato, dalla vogata scura dei gondolieri nei canali alla smandolinata pizzaiola davanti al golfo. Poi, nell’ultimo ventennio, tutto è cambiato, e oggi l’originalone è Kim che si ostina (ma nemmeno più tanto) a congelare la Corea del Nord nell’off-tourist. I viaggiatori hanno avuto modo di scoprire nei luoghi quella che essi immaginano esserne l’autenticità. Certo è che – nonostante il riparo di numerosi alberghi internazionalmente asettici e anonimi – persino il turista più attaccato alle sue cadenze domestiche (piglia l’italiano che s’informa ndò sta che fanno la pasta) si sente menato per il naso se non ha a che fare con qualcosa di “veramente” esotico. Purtroppo una certa omologazione globalizzante rende probabile l’equazione tanto più esotico tanto meno vero. Ma sul punto – senza la stessa severità – ritorneremo tra un attimo.

Fermiamoci un attimo per tirare le prime somme e proporre una tripartizione della forma di vacanze, chiamando in causa tre macrocategorie che all’interno contengono esperienze differenti.

Potremmo chiamare la prima vacanza dell’Es. Essa è condotta dal principio di piacere più istintivo e decostruttivo della coscienza. Il divertimento della vacanza è ridanciano, libertino, impulsivo, carnevalesco, dionisiaco, al limite nichilista. Il luogo e l’oggetto hanno un’importanza contenuta, schiacciati dal dominio del desiderio. Sono stati costruiti “villaggi” che non solo assolvono al compito di assicurare a flusso continuo schemi primitivi di divertimento ma nella sostanza impongono di goderli (sottoponendo gli individui a una pressione da “obbligo di divertirsi” che le colloca ad alto rischio di frustrazione). Tuttavia la vacanza dell’Es non va certo colpevolizzata, e quando non è chiusa in contesti semi-costrittivi è in grado di far recuperare forme di spontaneità intima e di liberazione del corpo.

La seconda è la vacanza dell’Io. L’individuo cerca nella sospensione dell’esperienza quotidiana e nell’allentamento della sua tensione la propria identità più profonda: entrando in contatto contemplativo o agonistico con la natura, fuggendo dalla mondanità, coltivando gli interessi che è costretto (o si induce) a trascurare abitualmente, risalendo alle origini con il ciclico ritorno al paese natale, ricercando una dimensione familiare più intensa con la ripetizione della “villeggiatura”. Il più delle volte la rigenerazione dell’Io non crea una frattura definitiva con ciò che comprime l’individualità bensì irrobustisce l’Io abbastanza da resistere al ritorno della compressione. Nella vacanza dell’Io è all’opera un principio di piacere più sofisticato del piacere dell’Es: ma la sua alternanza con il tempo dell’attività rappresenta, egualmente, un funzionamento più evoluto (e pertanto più resistente) del principio di realtà che lo allontana dall’appagamento costante del desiderio. Capita anche che, nel rigore con cui il soggetto cerca nella vacanza la soddisfazione identitaria, egli trasfonda l’intransigenza propria della prestazione produttiva, e che dunque la vacanza funga da “tagliando” della sua idoneità socialmente funzionale.

La terza è quella che potremmo chiamare la vacanza dell’Altro. Qui il luogo non è solo il mezzo per l’Es e per l’Io, ma è il fine della vacanza. Il soggetto cioè non si propone in via principale di divertirsi o di ritrovare il suo nucleo interiore bensì di scoprire dei luoghi, la loro particolarità naturalistica, la storia, i costumi e la personalità di coloro che li abitano. Si tratta chiaramente di un’impresa smisurata, e a seconda del livello a cui viene condotta si traccia la canonica distinzione tra turista e viaggiatore. Il turista sarebbe quello che si accontenta superficialmente degli stereotipi che gli vengono esibiti, e spesso anche quello che viaggia perché poi può raccontare di averlo fatto. Il turista si intruppa, abusa della fotografia, esagera negli apprezzamenti o – per senso di difesa – è propenso all’irrisione, appena può cerca le comodità che tuttavia lo allontanano dall’immersione nell’autenticità. È ovvio, però, che anche questa descrizione del turista costituisce una stereotipizzazione, essendovi una gamma di sfumature nella sensibilità di ciascuno per cogliere quel che veramente c’è di Altro. Del resto la corsa all’autentico, nel campo del viaggio, è destinata naturalmente all’insuccesso per effetto di uno spostamento infinito: un posto merita di essere scoperto per la sua autenticità ma, appena viene scoperto, si organizza per rimodulare posticciamente la sua autenticità (una vera rivincita degli ex paesi coloniali verso i vecchi colonizzatori) e  un po’ anche se rimane tale e quale viene spocchiosamente etichettato dal “viaggiatore” o dal turista colto, che si vede privato della sua vanitosa appropriazione del luogo “selvaggio”. Ogni turista di massa si considera meno di massa del turista che scende dalla nave crociera a fianco. Alla fine, anche se davvero il mondo è diventato più piatto, l’esperienza del viaggio rimane impareggiabile per aprire la mente delle persone, e anche nella trasferta più addomesticata si nasconde la scintilla di un arricchimento della sensibilità – che il viaggiatore professionale è capace di trascurare quanto il turista di massa è in grado di cogliere.

Negli ultimi vent’anni le vacanze hanno subito alcune trasformazioni per effetto della digitalizzazione. Essa, consentendo le pratiche low cost o l’organizzazione personale del viaggio e lo scambio di informazioni tra i vacanzieri, ha modificato la struttura della filiera industriale turistica, allargandola a nuovi soggetti – il lavoro che un tempo era centralizzato dalle agenzie turistiche si è adesso molto diffuso, e ci sono molte più strutture ricettive, e in più luoghi. La crisi del Covid, tuttavia, sta mostrando la fragilità di questo settore economico, basato sul circolante e sul debito e impossibilitato a resistere a un’onda d’urto contraria anche solo per un paio di mesi.

In pochi settori come l’industria turistica l’idea di “lusso” si è democratizzata e differenziata secondo esigenze personali, e beni in passato considerati di seconda scelta, come la gestione familiare dell’accoglienza, sono diventati benefit accanitamente contesi.

Sotto il profilo personale, invece, si è certamente accentuata la tendenza a “riprendere” le esperienze in foto o video piuttosto che “viverle” (cioè più nettamente riprendere o immergersi nell’attimo sono diventati alternativi). L’esibizione della propria vacanza non è certo una novità, e a chiunque è toccato prima o poi a casa di amici o parenti di vedersi propinato il reportage dentro ore di diapositive. Lo smartphone e i social hanno reso la pratica di condivisione maggiormente compulsiva e sincronica. Il prezzo è che ci si consegna in modo sempre meno immersivo al luogo di vacanza: un po’ si è lì e un po’ si è rimasti dove si trovano quelli con cui si condivide. Soprattutto, il cumulo di funzioni che gli strumenti digitali sono in grado di assolvere ha reso portatile buona parte di quel mondo che si era costretti a lasciare a casa. E troppo spesso accade di guardare sopra lo schermo invece che fuori dal finestrino. Diciamo che si viaggia di più, ma non si viaggia tutti interi.

Ultima, ineludibile domanda: la pandemia cambierà davvero il nostro modo di fare vacanze e di viaggiare? Una domanda oziosa finché la pandemia è in corso. Ed è difficile concepire previsioni sul dopo ignorando quanto tempo passerà per liberarcene e quale prezzo, anche economico, dovremo pagare. Certo è che la vacanza, in tutte le sue forme di sviluppo, ha avuto il suo punto di attrattiva nel giocare con le nostre sicurezze, rendendole meno solide di quanto accada nella vita quotidiana. Dovremo mica ripartire dalle stazioni termali ottocentesche?

Di |2020-10-02T09:31:30+01:0031 Luglio 2020|Limite di velocità|

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