Mettersi in coda

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Sei ore di coda per fare il vaccino: accadeva ancora all’inizio di quest’anno presso alcuni hub meno efficienti. D’altronde, tra quelli che si lamentavano ce n’erano alcuni disposti a mettersi in coda per i saldi alle sei del mattino senza fiatare. La frustrazione dello stare in coda è direttamente o inversamente proporzionale all’indispensabilità del bene per il quale si sta sopportando l’attesa? Nell’epoca comunista mi pareva che, nel rispettivo quotidiano, il segno più visibile della differenza di sorti tra l’est e l’ovest consistesse nel fatto che all’est (così si diceva e qualche volta si vedeva) dovevano fare lunghe code per comprare il pane o altri generi essenziali. Questo ricordo mi ha lasciato un’idiosincrasia per le code che si potrebbero evitare. Da ragazzo, per contributo al ménage familiare, ne facevo di lunghissime alle poste, ma se si trattava di aspettare per un gelato mi pareva uno sfregio ai tedeschi dell’est, e lasciavo perdere (in anni più recenti a Torino la gelateria Grom era un tempio delle lunghe file: liquefatte dal caldo, le persone accettavano di stare sotto il sole e aumentare ulteriormente la temperatura corporea per accaparrarsi il cono o la coppetta, e quando cominciavano ad avvicinarsi all’ingresso osservavano ipnotizzati i commessi che scavavano e ruotavano ore dentro il pozzetto, e quella crema che indugiava a cadere, come un bambino che ha paura di tuffarsi dal trampolino). L’11 gennaio, un’anziana signora spagnola, a Cartagena, giunta finalmente in cima alla coda ha scoperto che non era quella per il vaccino. Vendevano i biglietti per la partita con il Valencia, sedicesimi di finale della Coppa del Rey.

A un certo punto si è fatto caso che la fila per il pane non riguarda solo il passato dell’est comunista. In viale Toscana, a Milano, fuori alla sede dell’associazione laica di volontariato Pane Quotidiano, sin dalle sette del mattino, gente senza lavoro si dispone in coda per ritirare un litro di latte, yogurt, pasta, una scatoletta di tonno e il pane. Durante la pandemia sono arrivati a 1700. Qualcuno ha un tetto sotto il quale consumare il pasto, altri no.

Dal punto di vista occidentale, le mete turistiche e gli eventi sportivi formano tendenzialmente le code più lunghe. Ad esempio, in Inghilterra, salire sul London Eye richiede mediamente due ore e mezza di pazienza. A Wimbledon, per istruire i partecipanti alle file su come assicurarsi le poltroncine per lo storico torneo di tennis, hanno pubblicato un’apposita guida di una trentina di pagina (consultabile in coda). Il 31 gennaio 1990, per il pasto inaugurale al primo McDonald’s che apriva in Russia, 30.000 moscoviti si disposero a otto ore di attesa. Per me, ricordo una lunghissima coda per visitare il Santo Sepolcro. Molti erano fedeli che avevano intrapreso il viaggio della vita, e con la mente erano in coda da anni. Trascorsi una trentina di secondi in devozione, due custodi dalla sagoma scultorea battevano all’unisono le mani e uno avvertiva secco: “Okay, stop!”, e passava al prossimo. Tutti i giorni, sotto le prime luci di un’alba ormai priva di consolazione, i palestinesi che dai Territori devono passare il check point per lavorare in Israele si pigiano e incastrano verso i cancelli girevoli. Se un documento cadesse per terra sarebbe impossibile recuperarlo, quando il documento arriva tra le mani dei soldati lo rigirano a lungo tra le loro dita. Di solito non si fanno eccezioni all’ordine della fila, neppure per le ambulanze che debbono raggiungere il pronto soccorso.

Se non si tratta di varcare i confini, specialmente nel caso degli immigrati, le prenotazioni on line e l’eliminazione degli intermediari fisici hanno ridotto la coda a fenomeno marginale, anche per le questioni burocratiche. Nei casi in cui rimane un’ipotesi plausibile, la coda mette in scena questioni etiche riguardo a due tipi di soggetti: quelli che per negligenza contribuiscono a ingrossarla e quelli che la saltano.

Per rendere più efficace la coda, la Disney, in occasione dell’esposizione universale del 1964 a New York, inventò la coda a serpentina, che ora vediamo in tutti gli aeroporti e risulta funzionale per indirizzare al primo sportello che si libera, evitando al tempo stesso che una coda a linea retta si spezzi in una serie di file. Le epiche code nella Russia comunista (che non riguardavano però solo beni di consumo ma anche l’uscita di un libro) non erano disfunzionali secondo il regime, dato che sviluppavano una certa abitudine alla disciplina. Egualmente, le code durante l’apertura di un nuovo locale o la vendita speciale di un nuovo smartphone sono funzionali in termini di marketing, e quindi vengono create artatamente, affinché i passanti pensino: “Di che si tratta? Deve essere proprio una roba eccezionale per esserci tutta questa gente in coda!”.

La disfunzionalità della coda, talvolta, è frutto di quegli stessi che vi partecipano: ad esempio perché si tratta di curiosi che si affollano davanti a un incidente rendendo più difficile l’arrivo dei soccorsi o di persone che arrivate allo sportello, alla cassa o comunque alla sommità della fila, perdono tempo dopo avere ottenuto quello che serviva, chiedono informazioni di troppo, litigano, dicono che denunceranno qualcuno.

Per quanto concerne gli organizzatori, più che nell’impedire la coda, il loro sforzo plausibile è stato di migliorare lo stato d’animo di chi attendeva: la Disney fu antesignana anche di questo concetto nei suoi parchi, strutturando atmosfere o intrattenimento, meno utili però da quando la gente si intrattiene da sola guardando il cellulare. Il principale criterio razionalizzatore è l’assegnazione di un numero, di modo che chi attende possa farsi un’idea del tempo che manca e andarsene da qualche altra parte. Specialmente nei centri medici, tuttavia, il numero oggettivizza: da quel momento il paziente perde la sua connotazione identitaria e si identifica dapprima come simbolo matematico e infine quale fascicolo.

Con la pandemia l’imperativo di ridurre la coda è diventato anche sanitario. La catena di market americana Giant Eagle ha soppresso le casse con un sistema di machine learning che traccia i prodotti nel carrello, dopo di che il cliente paga velocemente con la app ed esce. Negli aeroporti si punta a uno screening biometrico sempre più rapido.

Da quando esiste la coda, esistono anche i furbi che cercano di saltarla (gli italiani risultano primi nella classifica europea). Teoricamente, quelli che vengono saltati dovrebbero accettarlo solo se chi li scavalca oppone una buona ragione, ma in realtà è sufficiente che venga presentata una qualsiasi ragione, pure se tautologica o sconclusionata. In un esperimento di psicologia realizzato negli anni ottanta durante la fila davanti a una fotocopiatrice, il 60% delle persone lasciava passare uno che diceva: “Scusi, posso passare avanti? Devo fare delle copie”.

Negli ultimi anni saltare la coda è diventato un bene commerciabile, cioè si può beneficiare di corsie veloci oppure pagare persone che la fanno al posto di chi poi usufruirà del bene o del servizio. Il trentunenne londinese Freddie Beckitt si definisce un professionista delle code, si fa pagare 24 euro all’ora e in una giornata può arrivare a guadagnarne 190. A Milano il codista, presidente del Movimento Disabili Articolo 14 e – per un breve periodo – candidato sindaco, Giovanni Cafaro, organizza corsi per chi vuole seguire la sua stessa carriera. E sogna di varare una specifica Accademia.

Secondo il filosofo Michael J. Sandel il business del line-standing rischia, per lo meno in certe occasioni, di pervertire gli equilibri morali del nostro sistema sociale (lo spiega nel volume Quello che i soldi non possono comprare). Prendiamo i lobbisti che pagano, a una compagnia che si definisce azienda leader nel settore, da 30 a 60 dollari l’ora per assistere alle sedute di commissione a Capitol Hill; o i newyorkesi che versano 125 dollari a qualcuno che fa la fila per ritirare un biglietto per le rappresentazioni gratuite delle opere di Shakespeare al Public Theater. Se la vediamo in un’ottica strettamente mercantile non fa una piega. Ma la coda è un sistema di assegnazione più democratico del denaro, e sia le sedute del congresso che gli spettacoli pubblici teatrali vengono traviati nello spirito se non sono fruiti gratuitamente ma arricchiscono un intermediario (e penalizzano il soggetto più motivato ad assumersi personalmente l’aggravio della coda).

Per quanto democratico possa essere il suo funzionamento, la coda al suo interno è un’aggregazione tendenzialmente poco impermeabile alla solidarietà (ogni altro membro della fila è un concorrente) e reazionaria. L’unica irrequietezza è quella di cambiare fila (secondo una ricerca dell’Harvard Business School chi lo fa perde il 10% in più di tempo di quello che rimane nella stessa fila, e il peggioramento raggiunge il 67% al secondo cambio). Non si è mai dato che un’azione rivoluzionaria sia nata nel seno di una coda. La coda è mugugnante, incline al rancore, oltre che mentalmente ripiegata sulla sua stretta contingenza e metadiscorsiva (cioè, nella fila si parla tantissimo della fila).

Il romanziere russo Vladimir Sorokin, in un romanzo il cui titolo, è appunto La coda, ne descrive le convulsioni e la eleva a metafora di una più generale condizione esistenziale. Nel romanzo non ci sono descrizioni né veri dialoghi ma solo un unico rimbalzo di voci interne alla fila.

  • COMPAGNI SI PREGA DI NON RUMOREGGIARE, NON DOVETE SPINGERE
  • Possibile tanta gente
  • Scostati
  • Comare, vi è caduto il fazzoletto
  • Grazie
  • Avanzate un poco compagni
  • COMPAGNI MANTENIAMO L’ORDINE, BISOGNA FORMARE UNA FILA REGOLARE
  • Cosa vuol dire regolare
  • E che, ci hanno radunati per questo
  • Su, fate più presto a vendere invece di scocciare
  • Soffre di scemenza, idiota!

(…)

  • Ecco, le minigonne vanno di nuovo di moda
  • Solo che ha le gambe grosse
  • E pure storte
  • Questo pure è vero
  • Comincia di nuovo a far caldo
  • Per oggi hanno annunciato un temporale
  • Da un pezzo ci voleva. Fa un tale caldo
  • Vedi che nebbia di calura, diluvierà di certo
  • Diluvierà
  • Ecco tutti si ammassano per l’appello, ce n’è di gente…

Curiosamente, per decidere se rimanere in una fila non si tende a fare il conto delle persone che sono davanti ma di quelle che sono dietro. Se siamo ultimi, o quasi, ci viene il dubbio che non sia veramente utile di starsene lì dietro in attesa: se dietro di noi lo spazio viene rapidamente coperto da un nugolo di gente ci inorgoglisce la convinzione di essere stati abbastanza scaltri da arrivare prima di loro. E pazienza se davanti ce ne sono altri cinquecento.

Di |2023-05-12T15:23:15+01:0018 Febbraio 2022|Limite di velocità|

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