L’islam è compatibile con la libertà e la democrazia?

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Quando si parla di Islam le generalizzazioni sono immediate. Esso viene identificato in toto con il mondo arabo, che ne rappresenta solamente un quarto, e fatto coincidere con una sovrapposizione istituzionale fra la legislazione e la religione, che formalmente è propria solo dell’Arabia Saudita (con l’eccezione delle norme sulla finanza…) e concretamente è una realtà molto più fluida e variegata di quanto si pensi. Inutile rammentare quale abisso passi tra la gran parte dei musulmani che vivono nei nostri paesi e il fondamentalismo. E però non è peregrino interrogarsi più attentamente sulla dottrina islamica e capire se il rigore che attraversa certe proibizioni e obblighi non indichi davvero una alterità culturale insanabile.

 

Quel che più impressiona dell’Islam è la sua morsa totalizzante sul reale. Secondo un’opinione ricorrente, all’Islam sarebbe estranea la secolarizzazione, ossia l’autonomia dalle religione della sfera sociale e della sfera politica, oltre che di quella privata. Germinato come una derivazione dell’ebraismo, l’Islam se ne distingue presto perché non è concentrato tanto su Dio quanto sull’uomo: che porta in sé la natura primigenia (al-fithra) che ne attesta l’unità divina ma la esprime quanto più è sottomesso alla divinità (abd Allah). E soprattutto, al contrario dell’ebraismo, l’Islam non raffigura una comunità selezionata di scelti separati dal mondo ma una comunità universale, la umma, ostacolata nella sua fusione con il divino da un pugno d’infedeli. Quel che in astratto potrebbe essere un veicolo di fratellanza (l’apertura universale), nella rivendicazione esclusiva della umma diviene la minacciosa, e se del caso violenta, occupazione di qualsiasi sfera, in qualunque spazio, che pretenda di sottrarsi al dominio religioso. Questa vocazione offensiva è alla base dell’ideologia radicale fondamentalista. Vale la pena di risalire indietro di una cinquantina d’anni, a uno dei massimi ispiratori originari dell’attuale jihad, Sayid Qutb. Egli fu antesignano anche nel percorso formativo, che transitò per un decisivo soggiorno negli Stati Uniti ove maturò una repulsione per la cultura materialistica dell’Occidente. Il fulcro della dottrina di Qubt è nel termine jahiliyya, che è tutto ciò che sta fuori dall’Islam (un’interpretazione innovativa, visto che tradizionalmente era riferito al periodo antecedente alla Rivelazione) e che come tale deve essere distrutto. Le forme idolatriche della jahilyya (“l’epoca scura dell’errore”) non risiedono soltanto nei costumi occidentali, ma pure (e sotto certi versi, peggio: del resto in uno di quei paesi Qutb finì impiccato) nelle società rette da governi musulmani che non si fondino sulla Legge divina. Nella soluzione della jihad, Qutb legge la necessità della “lotta armata”, del “combattimento militare e missionario”, dell’attacco “con la spada e non solo con il libro ai regimi dell’empietà”. Purtroppo Qubt compì verso la parola jihad lo stesso torto di traduzione che, ancora oggi, molti arabi addebitano agli occidentali: far diventare lo “sforzo” interiore del credente e, per estensione, la difesa e la protezione dei confini territoriali, la “guerra santa” . Senza neppure pagare il copyright alle Crociate.

 

Già leggendo Qutb, tuttavia, ci potremmo domandare se siamo effettivamente ancora nel campo della religione e non invece in quello della politica. Quel che la storia insegna è che, al di là dei proclami, è stata semmai la politica a impiegare l’Islam per costruire aree di potere, con non meno spregiudicatezza di quanto fecero Costantino e Carlo Magno con il cristianesimo. Lo sviluppo dell’Islam, del resto, è intasato di eventi contraddittori, nelle quali una posizione dottrinale si rovescia politicamente nel suo contrario.

E’ un problema che si presenta dalle origini, da quando si pose il problema della successione a Maometto e si scontrarono le due fazioni, quella sunnita e quella scita, la prima tesa ad affermare la proclamazione per meriti e consenso e la seconda a rivendicare la successione dinastica. Prevalse la prima ala, grazie alla quale ascese a califfo non Ali, il genero di Maometto (che non aveva eredi maschi in linea diretta) bensì Abu Bakr, l’uomo più rappresentativo tra i discepoli del profeta. Quella matrice “democratica” originaria non impedisce oggi che la potenza dei sunniti (nettamente la maggioranza islamica nei paesi arabi) poggi proprio su una dinastia ereditaria, quella saudita, presso la quale prospera l’ala più intransigente e prossima al fondamentalismo della religione islamica, il wahhabismo. Quanto al califfato, che il Corano non contemplava, esso fu da subito una strumentalizzazione simbolica che consolidò la netta prevalenza delle istituzioni propriamente politiche su quelle religiose.

 

Il più importante fenomeno controintuitivo, tuttavia, riguarda il ruolo delle scuole coraniche. La legge islamica deriva in primo luogo dal testo coranico, e quindi dalle 114 sure (i capitoli) che lo costituiscono: questi, ricordiamolo, si considerano la parola rivelata di Dio e non di un suo profeta, né tanto meno quella dei discepoli del profeta (una differenza abissale rispetto al cristianesimo); quindi dalla Sunna,tradizione e parola umana, il cui fulcro sono gli hadith, azioni e detti del profeta. Segue il fiqh,  giurisprudenza islamica, strettamente legata alla produzione delle scuole coraniche. Si potrebbe pensare che le scuole siano state un veicolo di ammodernamento e adattamento delle regole coraniche e che coloro che le hanno combattute in nome della tradizione coranica intendessero reprimere ogni forma di emancipazione del pensiero. Ma è vero l’opposto: perché le scuole coraniche sono state lo strumento politico per imbrigliare la società islamica dentro un nugolo di ossessive regole purificatrici sul cibo, il sesso o l’abbigliamento (che nel Corano rappresentavano solo il 3% del testo. Maometto aveva persino deriso il penitenzialismo degli ebrei).

A combattere le scuole coraniche si trovarono, non su fronti convergenti, dalla fine dell’Ottocento, le confraternite sufi e i proseliti della salafiyya. Entrambi i movimenti rivendicavano la purezza della spiritualità originaria, ma la salafiyya contestava la deriva mistica del sufismo. Oggi molti, anche nell’occidente, guardano speranzosi al sufismo quale strada pacifica per la religione maomettana. E però si dimenticano il ruolo armato che esse ebbero nella resistenza anticolonialista: del tutto condivisibile s’intende, ma che pure ha gettato qualche seme nell’ideologia della jihad. Quanto alla salafiyya, essa si distinse per il tentativo di abbinare la ritrovata autenticità della tradizione coranica con l’apertura selettiva alla modernità occidentale (dunque fu meno anticoloniale rispetto ai sufisti): sì alla scienza e alla tecnica no al darwinismo e al materialismo. Oggi possiamo constatare come  il suo rinnovamento si sia inabissato  in una nuova dogmatica oscurantista e nell’ambizione di una islamizzazione coatta della sfera pubblica e privata, peraltro respinta con forza da governi musulmani ma laici (come da ultimo in Egitto con la repressione a danno dei Fratelli Musulmani).

Il fatto è che nello stesso Corano si trovano mischiati due intenti assai divergenti, quello mistico e quello politico, che hanno prodotto le cosiddette sure meccane a fianco delle sure medinesi: quelle emotive, escatologiche, di comunione con la divinità, da una parte, e di pura contingenza militare, dall’altra. E’ noto che con il tempo (e quindi con le sure medinesi) il Corano diventò, per dirla con lo storico Maxime Rodinson, una specie di giornale che inseriva in tempo reale nel dogma gli imperativi strategici di Maometto. Rimane celebre, e riportato dalla tradizione islamica, lo stupore dello scrivano di Maometto che completò istintivamente una frase che il profeta aveva lasciato sospesa mentre ascoltava le rivelazioni divine e se la trovò ripresa distrattamente da Maometto e adottata come testo divino:  così perdette la fede e fuggì a La Mecca.

Oggi alcuni intellettuali islamici, propugnatori di un Islam della luce in luogo dell’Islam delle tenebre propagandato dai fondamentalisti, fanno perno sulla Sura 17, “il viaggio notturno” per affermare l’esistenza di un Islam pacifico e accogliente,  professando il testo addirittura come una “carta dei diritti dell’uomo” fondata sulla temperanza, il rispetto e l’etica del dovere. Forse dipenderà a qualche problema di traduzione ma non mi sembra che manchino inviti alla distruzione delle città empie. Quand’anche ci si volesse accostare ad espressioni meno ruvide sarebbe sbagliato pareggiarle con quelle che ci aspetteremo in quanto occidentali, e alla fin fine velleitario ostinarsi a inseguire un senso letterale inequivocabilmente favorevole alla tolleranza religiosa. Anche su quella Maometto seguì il vento della storia, e dopo avere più o meno passivamente imitato lo Yom Kippur e invitato i fedeli a inginocchiarsi in direzione di Gerusalemme volle, correttamente dal suo punto di vista, edificare una religione autonoma e appoggiare ad essa una nascente forza militare.

Insomma, se una cosa è mancata all’Islam non è l’autonomia dalla sfera religiosa ma l’autonomia della sfera religiosa e nella sfera religiosa. Sarebbe senza senso chiedere ai musulmani di vivere la loro religione fuori dal Corano ma quel che possiamo auspicare è che essi si rivolgano al senso più intensamente spirituale, spesso poetico, delle sure meccane ma soprattutto ricavino la dimensione più profonda da una libertà religiosa interiore, che la politicizzazione dell’Islam ha finito per negargli e che l’ostilità dell’occidente, quella parte che vuole chiudergli le moschee, rischia di allontanare di nuovo. Pericolosamente per tutti.

Di |2020-09-11T15:16:20+01:0024 Febbraio 2018|Limite di velocità|

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