La credibilità

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Che cosa intendiamo con questo concetto e come si sta trasformando

Le persone credibili sono quelle che secondo il nostro punto di vista:

  • Dicono quello che davvero faranno.
  • Hanno fatto davvero quello che dicono.
  • Dicono quello che davvero faremo o che ci viene o ci verrà fatto da terzi.
  • Faranno davvero quello che diciamo.
  • Dicono quello che davvero fanno gli altri o quel che serve fare a noi.

Prima di entrare nel dettaglio delle quattro categorie, e successivamente spiegare qual è il valore della credibilità altrui nelle nostre vite, possiamo già constatare che la credibilità non è esattamente qualcosa che la persona credibile “possiede” ma piuttosto qualcosa che altri gli attribuiscono. Siccome però la persona credibile ci deve mettere del suo (deve “apparire” secondo certe regole per non perdere la credibilità) possiamo anticipare che la credibilità è più precisamente una relazione tra la persona credibile e quelli che tale la considerano.

Addentriamoci ora nelle quattro categorie.

Le persone credibili dicono quello che davvero faranno. Quasi tutti gli osservatori politici sono stupefatti dei primi mesi di presidenza di Joe Biden, specialmente della sua politica fiscale, fortemente redistributiva. In realtà Biden sta solo mantenendo le sue promesse elettorali, alle quali non avevano del tutto creduto neppure quelli che lo votavano. La credibilità di Biden, in questo senso, non era eccezionale. Di Trump, a sua volta, si può dire il peggio possibile, ma non negare che quattro anni fa stesse dando corso al suo programma di candidato.

La politica è il settore principale in cui il lavoro delle persone consiste nel dire e poi fare di conseguenza, e quando parliamo di crisi di credibilità della classe politica democratica, lamentiamo sostanzialmente che vi sia uno scollamento tra le promesse e le azioni. Votiamo sempre chi è più credibile, che sia o no per ideologia. Achille Lauro è da tutti ricordato come il sindaco di Napoli che negli anni Sessanta comprava il voto grazie a un paio di scarpe, della quali prima delle elezioni veniva consegnata solo la sinistra. Era credibile nel promettere che dopo il voto sarebbe seguita la scarpa destra: che diavolo se ne sarebbe fatto di milioni di scarpe spaiate? Il voto clientelare, dal punto di vista dell’appeal, ha il vantaggio di rendere i suoi destinatari più facilmente credibili che non i candidati ideologici. Si può discutere per anni se la disoccupazione sia aumentata o diminuita (tirando i dati da tutte le parti: è diminuita ma in realtà sono tutti contratti a termine, è aumentata ma in realtà ma la gran parte dei lavoratori ha scelto di restare fuori dal mercato, eccetera) però se in giro la gente cammina scalza per metà te ne accorgi!

(L’articolo continua dopo il box dedicato al libro “Offendersi”)

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

L’esempio del politico clientelare serve anche a dimostrare che la credibilità non è per forza moralmente positiva, e pertanto inquadrarla solo nella categoria della fiducia è una parziale distorsione. Un latitante con una cicatrice sulla faccia che ci minaccia con la pistola è un criminale credibile, e ci induce ad assecondarlo; più di uno che ci minaccia senza ostentare la rivoltella e ha una palla da clown conficcata sul naso. Poi magari il primo è un infiltrato sotto copertura (benché questo non lo renda necessariamente meno pericoloso) e il secondo è Joker. La credibilità, quindi, non attiene necessariamente a qualcosa che poi viene dimostrato come vero ma è soprattutto uno strumento che si usa per ottenere un risultato: sia da parte di quello che è credibile, sia da parte di quelli che lo giudicano credibile (che, se sono elettori, vorrebbero pagare meno tasse o vedere aumentate le risorse per le scuole e, se stanno subendo una rapina, vogliono capire se rischiano di restarci anche secchi e comportarsi nel modo migliore per evitarlo).

Le persone credibili fanno davvero quello che dicono. Ai nostri tempi sta assumendo sempre più rilievo che l’azienda ci dica come si regolerà in futuro ma innanzi tutto ci preme che davvero abbia fatto e stia facendo quello che dice: che il pesce crudo sia stato davvero abbattuto, che le ore di studio per le quali il professionista ci sta presentando la parcella siano davvero quel numero lì o che il vino sia stato davvero prodotto biologicamente. In questi casi ciò che caratterizza la credibilità è soprattutto la trasparenza. Potremmo preferire un interlocutore meno qualificato, teoricamente, ma che ci pare più sincero, o il cui operato sia più semplice da verificare.

Se una persona prende a parlarci dei fatti suoi, e questi non ci riguardano direttamente, dobbiamo avere una ragione per rimanere lì ad ascoltarla, a parte la buona educazione: la principale è che crediamo che questi fatti siano davvero accaduti, e compongano nell’insieme un racconto che merita la nostra empatia o stuzzica la nostra curiosità. Il narratore deve insomma essere credibile. Potrebbe esserlo tuttavia sotto un profilo opposto al racconto della verità: ci cattura con una storia finta, in un teatro o davanti a uno schermo, a condizione che questa sia credibile dentro quel mondo parallelo, e lui credibile nell’interpretarla.

Le persone credibili dicono quello che davvero faremo o ci verrà fatto da terzi. Consideriamo credibile il commercialista che abbiamo scelto e ci dice quanto lo stato ci chiederà di tasse, ma anche il fisioterapista che ci diagnostica in due mesi il tempo di completo recupero da un infortunio – e, per chi è amante del genere, pure l’indovino che pronostica una vincita importante nei prossimi sei mesi, tendenzialmente un martedì.

Le persone credibili faranno davvero quello che diciamo. Immaginiamo che il corriere consegnerà effettivamente il pacco che gli abbiamo affidato, che l’avvocato patrocinerà realmente i nostri interessi invece che suggerirci una transazione sfavorevole dopo essersi accordato con la controparte, che l’amico serberà il segreto che gli abbiamo rivelato.

Le persone credibili dicono quel che davvero fanno gli altri o quel che serve fare a noi. I giornali, in teoria, dovrebbero rendicontare su quel che davvero è accaduto e uno scienziato riferire correttamente gli esiti di un esperimento effettuato da un gruppo di lavoro cui non appartiene; e presumiamo, per raggiungere un posto che non conosciamo, che sia preferibile percorrere il sentiero che ci ha indicato l’autoctono, così come soppeseremo con fiducia da parte dello psicologo che ci segue da anni in terapia il consiglio di modificare la nostra reazione a certi stimoli.

Questa sfilza di esempi tanto divergenti renderà chiaro che la credibilità non coincide con la reputazione, benché possa esserne favorita: in molti casi consideriamo credibile qualcuno ignorando totalmente quel che ne pensano gli altri; e certe forme di credibilità non richiedono altra reputazione che quella di rendersi credibile (in uno dei sensi che ho detto sopra). Il vigile che intima con la paletta di fermarsi per essere ritenuto credibile deve semplicemente ricordarsi di indossare la divisa.

Perché è socialmente (e individualmente) tanto importante la credibilità? A causa della nostra insufficienza. La credibilità degli altri, cioè, è il modo che abbiamo di raccogliere informazioni o utilizzare intermediari al fine di orientarci e agire nel mondo. Se non viviamo sopra un’isola deserta (sulla quale deputeremmo la qualifica di credibilità interamente ai segnali della natura e del mondo animale), la percentuale di quanto possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta o i benefici che possiamo procurarci da soli lungo tutta la catena dell’accadere (per dire: possiamo coltivare da noi l’orto ma dobbiamo prendere le sementi da qualcuno) è minima, quasi irrilevante. Dunque, sia per le informazioni che per l’ottenimento di risorse (o per conservare quelle che abbiamo) facciamo conto su altre persone, valutandone per prima cosa la credibilità.

L’organizzazione sociale, che si fonda in modo vitale sull’interazione delle informazioni e sullo scambio o la condivisione di risorse, ci semplifica il compito, oggettivizzando la credibilità mediante dei segnalatori (come i cartelli stradali o la moneta), creando dei filtri istituzionali alla credibilità (come la divisa, il titolo di studio per esercitare un mestiere o la campana della chiesa) e stabilizzandola mediante rituali (la celebrazione del matrimonio o le elezioni). L’organizzazione sociale spersonalizza parzialmente la credibilità, e non ci costringe a un costante esame approfondito del soggetto “credibile”: al commesso, per ricevere i soldi del cliente, basta trovarsi dentro il negozio e poi dietro la cassa, non è necessario né esibire un percorso di studi né possedere il carisma di Eisenhower. È questa una forma di credibilità riflessa, che costituisce la maggior parte dei casi.

Ha scritto il biologo Moffet che l’uomo arriva tranquillamente a sedersi in un bar in mezzo a degli sconosciuti, come non accade in nessuna specie animale (cioè, non solo non si siedono al bar ma non stanno stesi nella savana in mezzo a dei co-specifici sconosciuti). Questo accade grazie alla presenza di “marcatori sociali”, ovvero segni distintivi (come l’accento o gli abiti) che rassicurano il viandante non solo in merito a quelli che li esibiscono ma, di riflesso, anche riguardo coloro che stanno in mezzo a quelli che li esibiscono. Nella sua massima espansione, questa condizione estende la credibilità: mi basta considerare credibile qualcuno che si muove a suo agio in un ambiente per giudicare credibili altre persone che lo circondano (e quindi servirmene per i cinque fini che ho indicato sopra).

La credibilità altrui è un metodo per ottenere qualcosa (informazione o intermediazione per accedere a una risorsa), e dunque segue o precede un’azione – complessa o estremamente semplice – da parte del soggetto “credibile” (al quale è come se dicessimo: fai quello per cui ti ho giudicato credibile). Se a costui viene un tornaconto dalla sua azione, egli ha interesse prima di tutto a provare che la sa fare. Vi sono tuttavia casi in cui il rinforzo della credibilità, da parte del soggetto credibile, serve per far sì che quell’azione non venga compiuta. Questo accade quando vi è una sfida di credibilità tra soggetti a scopo deterrente. Durante la Guerra Fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica accrescevano la capacità del rispettivo apparato missilistico di colpire l’avversario, e la giustificazione della corsa al riarmo era che solo se davvero le due nazioni fossero state pronte a fare quello che dicevano (dunque a essere totalmente credibili) si sarebbero astenute dall’effettuare per primi l’attacco nucleare. Una dinamica analoga si instaura quando la credibilità concerne la prontezza a portare a termine una minaccia. Nel loro piccolo (piccolo, rispetto alla guerra nucleare), centinaia di film western o di azione arrivano al momento in cui l’eroe (maschio) che sta per vincere viene rintuzzato dal rivale che prende in ostaggio una donna e dice: “Butta la pistola o l’ammazzo!” (e quello ci cade sempre, ma non muore ammazzato solo perché sopraggiunge qualche evento fortuito che salva la vita sua e della donna; a mia memoria solo Kevin Costner in “Terra di confine” trova sconsiderata la proposta, prende meglio la mira e infila il pertugio dietro l’ostaggio per far saltare la materia cerebrale del cattivo).

Nella maggior parte dei casi, per fortuna, la competizione per apparire credibile non è tra due, in una loro questione, ma tra due e più, verso tutti gli altri, dentro un mercato della credibilità. Questo però evidenzia un problema: la credibilità, lo abbiamo detto, non consiste nel fare davvero quel che si dice o nel dire davvero quel che si è fatto ma nell’ottenere che altre persone siano convinte che il soggetto credibile davvero farà quel che dirà, eccetera. La comunicazione persuasiva, quindi, ha un valore nettamente superiore alla verità, e chi deve investire razionalmente risorse per essere “credibile” dovrà destinarle alla comunicazione persuasiva piuttosto che alla verità (che consiste ad esempio nell’affinamento della sua competenza o nella ricerca effettiva dell’informazione esatta). La credibilità (anche quando è giustificata) ha sempre uno stretto legame con una forma di apparenza, che può essere persino totalmente sganciata dall’argomento per il quale si è credibili, ma solo richiamarlo per assonanza (come nei rituali o nella pubblicità). In questo senso la credibilità ha sempre una componente attoriale, e non è strano che il giudizio su una recitazione metta in gioco in primo luogo la “credibilità” dell’interprete. La diffusione della credibilità è uno degli effetti dell’impostazione “drammaturgica” della società, nella quale ciascuno interpreta dei ruoli o indossa delle maschere o mostra facce sociali diverse a seconda delle circostanze, come insegnava il sociologo Erving Goffman.

Con le nuove tecnologie, tuttavia, la credibilità si è fortemente mediatizzata: per ricevere informazioni e orientare le nostre azioni ce ne serviamo in modo dominante. Siamo inclini a considerare “credibile” la tecnologia al posto delle persone. La tecnologia, inoltre, tende e farci percepire la sua intermediazione come se si trattasse di una nostra esperienza, poiché passa per un nostro strumento che ingloba l’informazione, l’informato e l’informatore e si propone quale interlocutore esclusivo. Esiteremmo a dire che una persona è “credibile” nella sua totalità (dipende evidentemente dalla materia o dalle circostanze), mentre la tecnologia ci offre l’illusione di una credibilità perpetua e risolutiva, dipenda essa dall’intelligenza collettiva o da quella artificiale. Ed è raro che opponga la sua incompetenza (contrariamente alla persona che possiede quel modo più sfumato di essere credibile consistente nel dire non lo so oppure non sono sicuro oppure non posso).

La mediatizzazione della credibilità ha altri profili sconvenienti. Il primo è l’indistinzione: avocando per sé la credibilità, la tecnologia digitale lascia sfuocate le competenze personali. Nella vita di tutti i giorni è questa la ragione per cui vengono sottovalutate dal pubblico le conoscenze professionali (e sopravvalutate le cognizioni che in una materia il profano ha acquisito mediante la tecnologia) e l’economicità sostituisce la credibilità personale come criterio di scelta di un servizio o di un professionista; nella vita sociale e politica, allo stesso modo, le credibilità che pretendono di promuoversi in modo strutturato sono offuscate da rappresentazioni più sbrigative: anche in questo caso prevale il criterio di economicità, applicato non al denaro ma all’impiego di tempo e allo sforzo cognitivo. La Rete ha un unico prototipo di soggetto credibile, l’influencer, nel quale però non è essere credibile che fa diventare un influencer bensì è l’essere influencer (per circostanze solitamente esogene all’oggetto della credibilità) che fa diventare credibile.

La seconda è la perdita della memoria per sovraccarico, che potremmo anche definire evanescenza. Ho scritto prima che per il soggetto che vuole essere “credibile” l’apparenza ha un valore più elevato della realtà. Questo rischio, tuttavia, viene temperato dalla “reputazione”, della quale proprio le tecnologie tendono a consolidare la costituzione e l’importanza. Non essere all’altezza della propria credibilità, nel medio periodo, determina ricadute negative. Ma l’eccesso di informazioni, la loro velocità e sovrapposizione consentono di fare delle crisi reputazionali un rimediabile incidente di percorso. Sussiste una relazione inversamente proporzionale tra la diffusione della tecnologia e la memoria.

Il terzo è che la credibilità, come abbiamo visto, non è uno status proprio di chi la possiede ma un’attribuzione altrui, e gli individui hanno la propensione a credere nella credibilità di chi conferma le credenze e i pregiudizi che già possiedono. In altre parole, si crede prima di tutto in ciò che si desidera, e le tecnologie digitali funzionano – secondo esigenze commerciali – con invii selezionati e spesso indiretti di messaggi diversi per ciascuno, in modo da rinforzare le convinzioni e i desideri già esistenti. La credulità, al posto della credibilità, non è più una fallacia emotiva e intellettuale o un effetto dell’insufficienza pedagogica di una società ma una condizione strutturalmente prodotta dal sistema digitale di orientamento. E la credibilità cessa di essere una relazione (tra il soggetto credibile e il pubblico che lo giudica tale) per diventare una proiezione della credulità di un pubblico, e quindi una prerogativa esclusiva di quest’ultimo.

Infine, quarto singolare profilo della mediatizzazione è la numerizzazione della credibilità – che può vedersi come una sottospecie di credulità. La forma di sapere che genera credibilità nel mondo digitale non solo ha un grado elevato di semplificazione ma deve manifestare un carattere chiuso, assertivo e conclusivo: deve trattarsi delle “cinque cose” che è necessario conoscere della pandemia o dei “sette passi” per diventare un imprenditore di successo. Contrariamente al processo di disincantamento che Weber aveva diagnosticato come irreversibile, la credibilità sta regredendo all’antico stadio oracolare.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-01-07T11:04:19+01:007 Maggio 2021|5, Limite di velocità|

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