Perchè i becchini stanno diventando una moda letteraria

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“Sarebbe più divertente guardare un becchino che scava una fossa in un cimitero piuttosto che due tizi che montano una commedia” ha detto Woody Allen. Sarà a causa di questo deficit estetico che per secoli i beccamorti sono stati messi pressoché al bando dalla letteratura? O la civiltà occidentale li ha espunti con la stessa meticolosità con cui ha trasferito la morte fuori dalla sfera domestica (noto insegnamento di Philip Ariès)? Una sontuosa eccezione se la concesse Shakespeare nell’Amleto offrendo qualche minuto di scena a due vivaci becchini che, mentre si accingono a seppellire Ofelia, nell’ordine: cavillano filosoficamente sulla dubbia salvezza delle anime dei suicidi in caso di annegamento; si abbandonano al qualunquismo lamentando che “ i pezzi grossi possono permettersi di impiccarsi o di annegarsi più di ogni altro cristiano”; rivendicano la titolarità della tomba, quando Amleto domanda di chi sia, in quanto produttori della medesima; assicurano che sottoterra la categoria del conciatore è la più lunga a marcire (nove anni in luogo degli otto di media), giacché “la sua pelle è così conciata che regge all’acqua per un pezzo”. Non che siano mancati i cimiteri nella narrativa: ma è servito – quando non a far accadere qualcosa di scioccante, come l’omicidio a cui assiste Tom Sawyer o a nascondere qualche tesoro in una bara – per lo più a cimentarsi con i fantasmi, compreso l’ultimo capolavoro in materia, lo struggente “Lincoln nel Bardo” di George Saunders. I becchini sono rimasti fuori dal cancello. Sino a poco fa.

La riabilitazione più eclatante va ascritta a Mathias Enard, che nel 2021 ha pubblicato “Il banchetto annuale della confraternita dei becchini”, un romanzone comico neo-rabelaisiano che mette al centro la tradizione rurale e la sua parallela dimestichezza con il cibo e la morte. I becchini del romanzo, in effetti, congiungono i due profili con tre giorni di pantagrueliche abbuffate e gargantuesche gargarozzate, durante i quali la morte innalza una cortina di rispetto e depone la falce. Anche i becchini di Enard, come quelli shakespeariani, possiedono una fluente loquela. Non quando si tratta di entrare nel dettaglio dei decessi: semmai sfiorano inteneriti con la punta del dito la grazia delle curve, contano le dita dei piedi ridendo soddisfatti quando ne avanza una, sono incuriositi dai tatuaggi e dalle verruche, rubano oggetti con parsimonia, giusto una catenina del battesimo o una cravatta, “non per disonestà ma per rispetto”. Lasciano ai polsi senza carne gli orologi e le sveglie al quarzo accanto alla salma, per la soddisfazione dei guardiani del cimitero che mitigano la gravità del silenzio con quella ticchettante compagnia e l’allarme per ricordarsi che è ora del pasto, indipendentemente dall’ora. Ma al principio del banchetto, perdio, le lunghe figure diventano linguacciute e si rallegrano, “Miei cari pizzicamorti e tristi scavafosse” così si apre il discorso inaugurale, “Lunga vita alla morte, grande Puttana” ne è l’acme. E giù con Beaujolais, agnelli, sbobbe bubbose e cetriolini (eccetera eccetera). Fino alla rituale conclusione, un’evocazione della morte nelle sue edulcorate varianti linguistiche, quasi un rosario che ne allevi la pietrificata rigidità, defungere, schiattare, spegnere la candela, fare fagotto, ritrovarsi fra quattro assi, andare a gallina, vedere l’erba dalla parte delle radici, lasciare il mondo, andare a far terra da pipe, addormentarsi nel Signore, dare le barbe al sole, andare a ingrassare i cavoli…E al centro della festa, un annoso dilemma: non sarebbe ora di ammettere le donne nella confraternita? (estratto con omissis della discussione: “perché infliggere alle signore un mestiere funesto? Vuoi forse con la scusa dell’uguaglianza imporre loro la nostra mestizia?  Lascia i seni nel mondo della bellezza” “Le nostre mogli possono tener i conti, ricevere i clienti ma non seppellire? Non le vediamo forse alle cerimonie, tutte di nero vestite? Non sono forse più avvezze a consolare le povere anime affrante? Le donne possono insomma truccare e pettinare i vivi ma non i morti?”.

E infatti, Visitacion Salazar un cimitero se lo fa per conto suo. Figlia d’arte: nell’immaginaria Mezquite, nel Terzo Paese, “una frontiera nella frontiera dove si congiungevano la sierra occidentale e la sierra orientale, il bene e il male, la leggenda e la realtà, i vivi e i morti”, resa arsa e livida dalla temperatura, dai contrabbandieri e dai miliziani (gli irregolari), in quella landa, il padre lavorava come guardiano del cimitero, in un tempo in cui i morti venivano gettati direttamente nella fossa con la terra che gli cadeva sopra la faccia. Visitacion, già a sette anni, vedeva il suo vecchio seppellire dalle cinque di mattina, gli portava il pollo e l’acqua, osservava il lavorio dei medici legali, a quindici anni fece la sua prima necropsia. Quando morì sua madre si domandò “Perché dovrei permettere a qualcun altro di farti bella?” (ecco che torna un argomento del dibattito nella confraternita). Visitacion va a studiare la materia nella capitale, torna, sostituisce il padre, impiega anche dieci ore per preparare un cadavere, si sposa, vede figli morire, e dopo ventisette anni di matrimonio si separa perché il marito le rimprovera di essere più attaccata ai morti che a lui, ma Visitacion ghigna ed eccepisce che se deve scegliere sceglie i morti perché quel che le dà lui può averlo da chiunque, arriva l’ora della pensione e prosegue in proprio, senza documenti che non le servono perché ha il benestare di Dio. Ora Visitacion è il riferimento di tutti coloro cui viene negata una sepoltura, perché sprezzati, nemici, inutili, contagiati da un’epidemia. Visitacion li accetta tutti e a tutti offre una lapide, ha recintato Las Tolvaneras, la sua area sacra combattendo (e continuando a combattere) contro una violenza che cerca di camuffarsi da legalità e che vorrebbe destinare il terreno a destinazioni più produttive, deposito per il contrabbando o una casa da gioco dietro lo schermo della parrocchia. Arrivano a chiedere requie anche da fuori: ad esempio Angustias, in fuga con il marito da un’epidemia, deve seppellire i due infanti che “la vita aveva preso in prestito sulla strada per la morte”; un posto per i bambini da Visitacion non manca mai, e Angustias le rimane a fianco come aiutante; e come luogotenente, perché chi non la venera, Visitacion, la odia, e a lei tocca difendere Las Tolvaneras, non perché sia padrona di quella terra, ma perché non lo sono i preti, non l’autorità, non i vivi soprattutto. Quella terra è dei morti.

“Colleghi e amici! Necrofori e beccamorti!”. Il consesso dei becchini di Enard si estende a pizzicamorti, badilanti, marmisti, custodi di cimiteri, tanatoprattori, addetti ai crematori, cocchieri di carrozze funebri. E Visitacion, come suo padre, cumula l’incarico di custode e becchina. Non è allora sacrilego – al contrario, di sacro funerario vuole parlare il libro – introdurre nella categoria quel formidabile successo commerciale di Valerie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori. Violette Toussain, che è passata senza soluzione di continuità (del resto un lavoro pare la metafora dell’altro) dal ruolo di custode di un passaggio a livello al ruolo di custode del cimitero di una cittadina della Borgogna, mette le mani nella terra, non per prendere e per l’ultima volta modellare i corpi (compete ciò a tre dolci necrofori e altrettanti addetti alle pompe funebri), bensì per rendere più fiorito, profumato e gradevole il loro soggiorno e il transito silenzioso di coloro che vengono a piangerli. Violette è la memoria esterna dei superstiti: trascrive i discorsi delle commemorazioni, che tornano utili anche per addestrare chi presume se stesso incapace di congetturarli, conosce a menadito il posto di ogni tomba e le iscrizioni sulle lapidi, tiene a mente la citazione di Malraux che le ha trasmesso il suo predecessore (“la sepoltura più bella è la memoria degli uomini”). Nella sua testa disseppelisce i suoi, di morti. Constata che accanto al cimitero le piante crescono più in fretta. Lascia che i gatti dei defunti si strofinino sulle sue gambe.

Mircea Cartarescu, nel fluviale e potente (pieno di stile, meraviglie ma anche un po’ sfibrante) Solenoide, inventa una setta mistica che allestisce cortei di protesta contro la morte nei cimiteri della città, il contrario dei becchini insomma. In compenso un uomo si innamora di una donna preposta alla ricomposizione dei cadaveri nell’obitorio, o forse di una becchina professionale. Sapete in quale romanzo? Neppure io, e se vi viene in mente vi prego di informarmi. Ho omesso di annotarlo mesi fa mentre leggevo e già ne pregustavo l’inserimento in quest’articolo, e adesso non lo trovo, avrei proprio giurato si trattasse di Cartarescu ma forse ora è riuscito a seppellirlo nelle sue 937 pagine, va a sapere, però lo ricordo che c’era un legame fra quel suo saper trattare i corpi rigidi dei cadaveri, e sapersi porre correttamente nei flussi di scambio dei corpi vivi, credetemi sulla fiducia.

“Sapete miei cari becchini che vi fu un tempo in cui le donne erano ammesse nella nostra confraternita? In cui avevano voce in capitolo? In cui non soltanto sotterravano, lavavano, mummificavano, profumavano, stappavano e ritappavano?”. Se stappavano non lo so, ma certo è che nella civiltà classica il rapporto tra le donne e i riti mortuari (dei quali l’esistenza dei cimiteri rappresenta una manifestazione permanente) era assai stretto. La gestualità del dolore femminile nella Grecia e a Roma era la componente cardine nella drammaturgia del rito funerario, e le prefiche hanno proliferato nel folclore europeo. Sarebbe riduttivo considerare tale forma liturgica una delega all’esternazione di sentimenti che la virilità maschile avrebbe avuto pudore di mostrare (e comunque, è lì che comincia l’elaborazione del lutto nella comunità). In Sardegna, a lungo, la cultura matriarcale sfociava nella conduzione femminile di tutta la parte rituale e quella di contatto fisico con il morto (era sempre una donna, ad esempio a chiudere le palpebre e le labbra). Per chi presta attenzione alle invarianti culturali, è interessante notare come nell’isola di Bubaque, in Guinea-Bissau, le donne si occupino delle pratiche funerarie e fungano da mediatrici tra i morti e i vivi (comunicando anche con gli antenati), quale naturale corollario del fatto che rappresentino il principio di fertilità.

Se la letteratura sta prendendo a benvolere i becchini, è forse il segno che superato un certo stadio di scomparsa sociale della morte (accentuato dalla scelta della cremazione e dalla sopravvivenza post-mortem digitale di cui si è bene occupato il filosofo Davide Sisto), la comunità viene attanagliata dall’angoscia che la terra le manchi sotto i piedi, ma anche sopra le testa, e che in ultima analisi si spezzi il legame della memoria tra i morti e i vivi, che è il collante della nostra esistenza. Che in questa specifica ricerca di etica della cura venga spontaneo mettere in primo piano le donne non è sorprendente. Il diritto alla sepoltura nella propria terra, culturalmente, si identifica con Antigone, e Visitacion è un’Antigone che ha vissuto la globalizzazione, perché tutela il diritto di essere seppelliti in quella altrui, e teorizza che almeno dopo la morte non ci siano confini che tengano, come Totò negava che permanessero gradi di lignaggio. E, fra l’altro, non è detto che un festival mainstream della letteratura sia sempre più ricco di idee ingegnose rispetto a un congresso annuale di becchini (certo, se il filone prende piede bisognerà coniare un termine definitorio meno fosco).

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Dalla democrazia di Atene a quella del web, un atto di accusa verso un regime politico che non riesce più a risollevarsi e mantenere le sue promesse. Una revisione radicale dei concetti di libertà, eguaglianza e giustizia, contro ogni ipocrisia, per salvare l’ideale della democrazia mediante una serie di soluzioni rivoluzionarie senza passare per la rivoluzione. Un tentativo di riconciliare i cittadini e gli stati (entrambi oggi assai lacunosi) nel segno di una nuova democrazia partecipativa responsabile.

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Di |2023-01-05T19:26:14+01:0015 Luglio 2022|Limite di velocità|

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