Recensione del film “Piccole donne”

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“Faccio cose, vedo gente e mi autorealizzo”. Così potrebbe integrare la celebre frase di Ecce Bombo il personaggio principale di Piccole donne nella rilettura di Greta Gerwig. La regista compie un salto abissale rispetto al caramelloso e nebulizzato impianto tematico di Lady Bird, qui riproposto con una diversa maturità di mezzi e appoggiato al solido basamento di quel testo sorprendentemente avanguardista di Louisa May Alcott: il femminismo dell’autrice è intelligentemente riadattato per trasporne la sensibilità nell’epoca contemporanea oltre che purgato dal carico di pedagogismo. E l’opera sviscerata in una forma molto intrigante.

 

Piccole donne raccontava di quattro sorelle adolescenti – Meg, Jo, Beth ed Amy March – tese a conciliare le aspettative sociali che le volevano carne da matrimonio con l’emergere di un’individualità più sfaccettata e sollecitata dalle inclinazioni artistiche. Nel suo seguito (che tale fu nelle traduzioni europee, essendo invece unito nell’originario testo americano) Piccole donne crescono, le ragazze si sposavano ma la più grande, Jo, aspirante scrittrice che però titubava per convenienza sociale nell’apporre la sua firma ai testi inviati ai giornali, diventava una donna più solidamente impegnata nel difendere l’autonomia dell’identità femminile e il rifiuto del suo annullamento nella costituzione della famiglia (cui però non si sottraeva).

La prima e più significativa variante introdotta dalla Gerwig è di mischiare le due fasi, partendo anzi dall’età più avanzata per poi viaggiare avanti e indietro con i flashback. Di più: scene del passato e del futuro vengono affiancate per similitudine, aiutando a coglierne la diversa temperie emotiva e l’evoluzione psicologica di chi le vive. Siccome gli anni trascorsi non sono molti, le attrici sono le stesse (così come il partner maschile, Laurie – interpretato da Timothée Chalamet – il ricco giovanotto che vive con il nonno in una villa vicina), e le loro fisionomie, che non per tutte vengono ritoccate in modo sufficiente da segnalare lo stadio dell’età, possono inizialmente creare qualche problema di orientamento allo spettatore. Alla fine però l’esperimento si può considerare riuscito e cardine del coinvolgimento.

 

Jo, ancora più che nel romanzo, è la vera protagonista, cui spetta di suggellare il bellissimo inizio (la sua visita a un editore che esamina davanti a lei un testo proposto per la pubblicazione) e il finale, che in teoria è ancora più happy e patinato che nel romanzo ma diventa un lusso che la Gerwig può permettersi per come ha impostato la versione cinematografica. Non sarà solo il finale del film infatti, ma anche il finale del suo romanzo che attende l’uscita e deve pur piegarsi alle aspettative consolatorie del pubblico: e il libro è Piccole donne. La Gerwig ha inventato infatti un brillante espediente metanarrativo che rende Jo autrice nello stesso tempo del suo destino, del romanzo che ha completato e indirettamente (e tramite l’incarnazione con la regista) del film.

 

La Gerwig prova a dare anche uno spessore più fitto alle sorelle di Jo, in particolare a Meg e alla sfortunata Beth, che nel libro apparivano più monocordi, ma non riesce completamente nell’intento; al contrario la volontà di mostrare le contraddizioni interiori dell’irrequieta Amy scivola in qualche deficit di verosimiglianza (e tuttavia Florence Pugh in alcuni frangenti se la cava piuttosto bene). Non era facile scolpire in modo più moderno tutti i personaggi, dai genitori delle quattro sorelle alle figure maschili, e per questo il compito di chi deve recitarli viene piuttosto facile (e quando il ruolo è debole in sé, come per l’arcigna zia, non basta l’esperienza di Meryl Streep per rivitalizzarlo). Ma il discorso non vale per Saoirse Ronan nella parte di Jo, che regge ottimamente il peso della complessità di Jo e la centralità nel film. La regia non insegue acrobazie ma le inquadrature hanno una bella varietà, così come i colori. La colonna sonora di Alexandre Desplat parte con promesse nymaniane per poi adagiarsi su uno stile del Tiersen più compilativo, e certi ralenti – per fortuna decrementati dopo un iniziale dose da cavallo – risultano inutilmente stucchevoli. Però i costumi sono ineccepibili, la sceneggiatura eccellente e tutto l’insieme armonico, con qualche piacevole spennellata di classicismo, in grado di far perdonare quel pizzico di furbizia cui, anche in una nobile militanza, sempre si cede quando si sceglie di navigare dentro un tema che “tira” (finendo paradossalmente per annacquare anche un tantino la militanza).

 

Piccole donne

Greta Gerwig

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:17:23+01:0024 Gennaio 2020|Il Nuovo Giudizio Universale|

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