Figli con due madri o due padri e via discorrendo

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Trascritto all’anagrafe il certificato di nascita di un bambino con due madri. In queste settimane le grandi città hanno “strappato” verso l’omogenitorialità. Anche se la legge italiana è piuttosto restrittiva (ragion per cui la quasi totalità delle decisioni amministrative o giudiziarie si fondano sulla trascrizione di atti esteri),

fuori dal plauso generalizzato in nome del sacrosanto principio di parificazione delle famiglie si incappa solo in qualche anatema di matrice ipercattolica oppure omofoba. È praticamente impossibile intercettare pacati ragionamenti che si pongano il problema di distinzioni o gradazioni.

 

Per provarci, dunque, occorre partire da una citazione datata di ventiquattro anni, riferita alle tecniche di fecondazione assistita, che dell’omogenitorialità naturale sono evidentemente la base. Riporto un estratto del 1994 scritto da una persona insospettabile di bieco conservatorismo e di insensibilità ai diritti sociali, la psicologa femminista Silvia Vegetti Finzi (che più recentemente, invero, ha espresso perplessità sull’adozione fuori dalle coppie eterosessuali. Ma ci torneremo dopo, e non c’entra nulla con quello che segue):

“Quanto più i legami affettivi si fanno fragili e ansiogeni, tanto più si rinsaldano quelli biologici, con un effetto inatteso di ritorno indietro (…) Una risposta di questo consiste nei differenti modi di rispondere alla sterilità negli ultimi decenni: negli anni ’70 l’interesse verteva sull’adozione e l’affidamento, sentiti come valori sociali; dagli anni ’80 l’ottica si è spostata sulla fecondazione artificiale, dove vengono enfatizzati gli elementi di consanguineità, di somiglianza, di realizzazione del proprio ideale narcisistico.

Il motivo che spinge le coppie a preferire la fecondazione artificiale rispetto all’adozione o all’affido consiste innanzitutto nel mantenimento di un vincolo biologico: “che nostro figlio sia parzialmente nostro”, “che abbia parte del nostro patrimonio cromosomico”. In altri termini è il valore della consanguineità che ritorna, con tutto il suo condizionamento di autoaffermazione, diffidenza verso l’estraneo, salvaguardia del certo e del noto. Ma dietro questa richiesta consapevole e sostenibile vi è in agguato il desiderio inconscio che impone alla generazione le sue illimitate pretese: un figlio quando e come lo voglio io.

Il tutto esprime una società iper-individualista che, separata la sessualità dalla procreazione, si trova a gestire la forma reciproca di quella dissociazione, vale a dire la procreazione disgiunta dalla sessualità. Dopo avere conquistato il piacere senza filiazione ci si confronta ora con la filiazione senza piacere”.

 

Che si condivida o meno l’articolo, forse troppo tranchant sugli schemi motivazionali, è difficile negare che esso si riferisca sensatamente a forme di frizione tra la modernità, la scienza, la famiglia e gli individui che non possono essere liquidate con un’alzata di spalle. E invece di quegli spunti si è fatto strame, riassorbendoli completamente nel tema dominante dei diritti familiari fuori dall’eterosessualità.

Ritornando ai casi che citavo all’inizio, vale la pena di rammentare che non si tratta di adozioni da parte di un genitore non biologico o di adozioni da parte della coppia omosessuale, ma di genitorialità qualificate come naturali, al pari della filiazione.

Uno degli atti di cui dicevo all’inizio, la registrazione all’anagrafe di Roma – identicamente ripetuta per un’altra coppia nel comune di Milano – di un bambino con due genitori naturali di sesso maschile è preceduta (come allo stato è tecnicamente inevitabile) da una “maternità surrogata”, cioè da una fattispecie vietata in Italia e che da tempo solleva dubbi etici per il rischio di una monetizzazione del corpo della donna che preluda a nuove forme di sfruttamento (la Corte Costituzionale l’ha recentemente bollata come una pratica che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”). Se il motivo dell’interesse del minore può avere un senso per la legittimazione di una situazione di fatto esistente (come per l’adozione del figlio del partner), la sanatoria di un progetto vietato in nome di quello stesso interesse del minore rende di fatto inutile il divieto, che anzi a quel punto rappresenta una barriera sociale tra chi ha il denaro per permettersi di andare all’estero e chi non lo ha. E rispondere a questo dicendo “vabbè, allora togliamo il divieto così possono farlo tutti in Italia” non è un ragionamento morale ma un ragionamento estorsivo…

A Torino, quattro anni fa, il Tribunale di Torino (poi confermato dalla Cassazione) ha imposto la registrazione all’anagrafe di due genitrici che avevano salomonicamente diviso la maternità, una mettendo l’ovulo e l’altra portandoselo inseminato con la gravidanza. La situazione, certo, è molto differente. E però, in questa divisione specializzata del lavoro non si riaffaccia (in una strana ricomposizione modulare) quella spinta individuale verso il primato del biologico, che pure di partenza è il principale nemico dialettico dei movimenti omosessuali? E non è forse palese un certo stridore tra l’affermazione che portare un feto in grembo equivalga a maternità e la soppressione di quella stessa simbiosi nell’imporre legalmente a una madre surrogata di non avanzare diritti?

Il caso più recente di Torino, per come riportato dai giornali, è consistito all’opposto nell’attribuzione della genitorialità naturale, oltre che alla madre, alla sua convivente che aveva manifestato in Danimarca (ripeto: si tratta di trascrizione di atti stranieri, sotto leggi diverse) la volontà di esserne il genitore. Qui dunque, al di là della filiazione naturale e dell’adozione, si origina, a metà strada, una genitorialità per intenzione. Nel nostro ordinamento qualcosa di indirettamente analogo esiste nella legge sulla fecondazione eterologa, all’articolo 9, che impedisce il disconoscimento del padre che abbia acconsentito, anche a mezzo di fatti concludenti, alle pratiche di fecondazione assistita. Ma non è la stessa cosa. Nel caso della coppia eterosessuale la finzione consiste nel fatto che una coppia, astrattamente idonea a procreare mediante accoppiamento sessuale, lo abbia poi fatto concretamente con mezzi solo propri. Nel caso della coppia omosessuale la finzione sale di livello: consiste nel fatto che abbia concretamente procreato una coppia che astrattamente non può mai procreare. Una è un surrogato, l’altra una magia. Si dirà che non siamo incatenati alla natura (anche se come abbiamo visto negli altri casi si cerca di ri-crearla). Sicuro, la natura non è il parametro dell’eticità. Ma è il parametro di partenza per ogni normativa, che ha del resto il compito di rimuovere ostacoli all’eguaglianza non quello di costruire artificiosamente per alcuni una situazione identica a quella che per altri è naturale (o anche di più: a una coppia eterosessuale che non soffra di sterilità non sarebbe possibile questa genitorialità per intenzione).

Insomma, quando ci sono dei parametri naturali, la legge deve stabilire sino a che punto vuole torcere il collo alla natura. I principi sono una buona ragione per torcerlo, e il riconoscimento di diritti alle famiglie omosessuali è un principio importante. Ma quando si esce dai paletti della coppia entrano in gioco altri soggetti, che si tratti della madre surrogata o dei bambini, altri principi, che vanno quanto meno comparati. Non è così scontato che una società in cui la genitorialità naturale diventi frutto di un’intenzione insindacabile sia la migliore per i bambini. E del resto, quando la Corte Costituzionale ha censurato il divieto di fecondazione eterologa, lo ha fatto (cito qui un giurista autorevole come Paolo Morozzo Della Rocca) trapassando al concetto di “autodeterminazione, riducendo la filiazione alla stregua di un diritto individuale dell’adulto, un diritto della sua personalità, in cui il figlio diventa lo strumento di realizzazione dell’adulto medesimo”.

 

L’Italia è un paese selvaggiamente arretrato sui diritti delle famiglie omosessuali ed è arrivato vergognosamente tardi nell’introdurre le unioni civili.

È assurdo che sia stata necessaria la supplenza della magistratura nel rendere accessibile anche alle coppie omosessuali la stepchild adoption, che la legge aveva rifiutato.

Opporsi alle adozioni delle famiglie omogenitoriali è antistorico. Gli studi che documentano il buono stato di benessere dei bambini cresciuti in quel contesto (analogo a quello delle famiglie eterosessuali) sono ormai numerosi e attendibili, e non ho difficoltà a immaginare, già solo tra quelle che conosco, famiglie omosessuali che saprebbero creare un contesto affettivo meraviglioso per i bambini. A essere precisi, tuttavia, mi piacerebbe che gli studi scendessero maggiormente in profondità nel delineare gli effetti di un ambiente familiare che azzera la differenza sessuale dei genitori (è normale che una freudiana come la Vegetti Finzi allibisca della facilità con cui ci si sbarazza di Edipo). E, per non essere ipocriti, bisogna ricordare che quegli stessi studi ammettono un punto debole nel disagio che i bambini patiscono per la stigmatizzazione sociale che subiscono. Ovviamente la colpa è degli stigmatizzanti, ma anche non eccedere nell’edulcorazione e riconoscere che questi bambini scontano una fase storicamente di transizione, e questo non l’hanno chiesto né rientra nel loro specifico interesse, sarebbe più onesto.

 

La genitorialità naturale dentro la famiglia naturale, invece, mi pare un percorso ancora da costruire, in termini di comunità condivisa (e di certo costringere le madri a compilare un modulo che ignora l’esistenza della fecondazione non è una buona partenza). Non credo che tale percorso si giovi delle accelerazioni e soprattutto della totale indistinzione casistica. Sarebbe bello che, come ogni stagione di diritti sociali, questa dei diritti di famiglia omosessuali portasse il mondo avanti, oltre che per la tecnica e la libertà, per l’etica dei valori, il rispetto degli altri, la storia del costume: per questo mi spiace quando percepisco spinte regressive. Per dire, ho trovato strano prendersela perché l’unione civile non si chiama matrimonio, stupendomi che la massima aspirazione delle nuove famiglie fosse quella di ricalcare, anche nominalmente, quell’istituzione che cinquant’anni fa era stata screditata come formale e borghese…

Di |2020-09-11T15:16:16+01:004 Maggio 2018|Limite di velocità|

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