Non si starà esagerando con l’inconscio?

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Per una distinzione dall’inconsapevolezza: riprendiamoci la coscienza.

Pensateci bene: siete davvero sicuri di sapere perché avete cominciato a leggere questo articolo? E’ per puro interesse del tema? In realtà potrebbe darsi che qualche dettaglio della foto abbia riattivato un’attenzione che avevate sperimentato positivamente in un’occasione del tutto diversa. Oppure che conoscete l’autore, e il fatto che abbiate in mano una bevanda calda vi abbia ben predisposto nei suoi confronti (se invece aveste sorseggiato un gin tonic ghiacciato avreste pensato: il solito rompiballe!). O che vogliate dimostrare qualcosa alla persona che si trova nella stessa stanza.

 

Se un tempo Cartesio aveva identificato la mente con la coscienza, la psicologia e le neuroscienza gravitano ora in una direzione opposta, e persino Freud viene classificato tra coloro che alla vigilanza cosciente hanno attribuito un ruolo eccessivo. A Freud siamo debitori del concetto di inconscio dinamico: cioè dell’idea che rimuoviamo desideri sconvenienti ed esperienze spiacevoli, che però condizionano il nostro sentire e rischiano di sfociare in nevrosi. Oggi si ritiene il rimosso sia una parte infinitesimale dell’inconscio, il quale comprende per lo più contenuti che non hanno mai avuto accesso alla coscienza; più precisamente che i nostri comportamenti siano guidati dall’inconscio cognitivo e quindi: a) che il nostro cervello è un processore che in prima battuta utilizza un circuito (sistema 1) per l’elaborazione rapida e inconscia di informazioni e solo a uno stadio più complesso coinvolge un sistema 2 che implica la riflessione  b) che la memoria sia spesso implicita e comprenda esperienze preverbali, addirittura riconducibili al periodo intrauterino, e che vano sia in  tal caso il tentativo terapeutico di farlo affiorare attraverso il linguaggio.

 

Due libri usciti quest’anno sono particolarmente efficaci nella descrizione dei due profili. Del primo si occupa John Bargh in “A tua insaputa” (Bollati Boringhieri); del secondo Efrat Ginot  in “Neuropsicologia dell’inconscio” (Raffaello Cortina). Bargh va oltre la funzionalità del sistema 1/pilota automatico descritto alcuni anni fa da Daniel Kahneman e racconta innumerevoli circostanze nelle quali condizioni ambientali che non hanno in teoria niente a che vedere con i fatti di cui dobbiamo giudicare determinano invece quel nostro giudizio: ad esempio, basta mettere musica triste nei supermercati (Wall Mart ne fa ampio uso) per sollecitare lo shopping compulsivo compensatorio. La Ginot (in scia al neuro scienziato Antonio Damasio) dimostra come inconscio e conscio rappresentino un continuum che spazia nelle medesime regioni cerebrali che formano mappe neurali e producono stimoli dopaminergici, determinando un apprendimento prevalentemente inconscio. Quel che più quest’impostazione ha in comune con l’inconscio freudiano è la coazione a ripetere. Se al nostro cervello pare che una situazione emotiva ne richiami un’altra che ha prodotto una reazione difensiva sfuggiremo al nuovo evento anche se, analizzandolo in profondità, scopriremmo che non ce ne sarebbe ragione. La distanza maggiore da Freud, invece, è che la Ginot afferma l’esistenza di un inconscio relazionale e perciò di una strada terapeutica che transita per una comunicazione affettiva mediata dagli emisferi destri.

Ma non si starà esagerando nello svilire la parte cosciente del nostro agire? A me pare che vengano uniti nello stesso calderone due fenomeni che meriterebbero di essere distinti, ovvero l’inconscio e l’inconsapevole. Che non tutte le attività mentali siano accessibili all’individuo non c’era bisogno della psicoanalisi per saperlo; che vi siano pulsioni sovrastanti che incrinano il libero arbitrio emergeva a sufficienza negli scritti di Schopenauer; e che le percezioni possano (e quindi anche le azioni) essere offuscate dalle condizioni ambientali era pane quotidiano dei primi sciamani.

Se andiamo fino in fondo, è ovvio che non esiste nessuna azione di cui la coscienza abbia il dominio esclusivo, dato che persino l’atto del vedere implica l’attivazione di una serie di processi cerebrali che lo precedono.

Si deve riconoscere che la sfera di ciò che non è consapevole è più larga di quel che immaginassimo, ma questo non inficia l’intenzione cosciente. Anzi, spesso funziona al contrario: raggiunta la consapevolezza di ciò che ci condiziona e giunti a una chiara determinazione del nostro obiettivo, l’intenzione influenza le procedure inconsce, che da quel momento lavoreranno al suo servizio.

 

Benché avesse sbagliato del tutto bersaglio con l’ossessione della sessualità ed esagerato la sfera del rimosso, Freud ha connotato l’inconscio secondo un profilo che rimane meravigliosamente (e drammaticamente) vero: quello del conflitto interiore. L’uomo di Freud non è un essere variamente e inconsapevolmente condizionato a volere cose diverse da quelle che potrebbe volere; è un essere conflittualmente condizionato a volere cose diverse da quelle che vorrebbe ed impegnato strenuamente a domare questo contrasto. Non saranno le (pur fondamentali) acquisizioni delle neuroscienze a renderci meno eterni i personaggi di Dostoevskij, che con una modalità differente aveva messo in campo le stesse intuizioni cui sarebbe pervenuto Freud.

 

Dicevamo, non tutto l’inconscio è rimozione. Ma neppure tutti gli stati cerebrali sono mentali. La proposta del filosofo John R. Searle è che la condizione, per uno stato inconscio, di qualificarsi mentale è che esso abbia quanto meno la possibilità di diventare cosciente (cioè di dirigersi verso un oggetto esterno: sorvolo sul tipo di esternalità). Viene voglia di aggiungere un terzo stadio all’inconscio e all’inconsapevole: quello procedurale, che descrive un modo di funzionamento fisico rispetto al quale la consapevolezza e la coscienza sono successivi.

 

Quando agiamo secondo intenzione conscia non possiamo mai essere padroni di tutte la variabili che ci rendono adeguatamente consapevoli di quanto stiamo facendo (al minimo, non possiamo essere certi di tutte le conseguenze che ne scaturiranno). Lo studio delle mappe neurali ci rende (appunto) più consapevoli della quantità di fattori in gioco, e rende obbligatorio verso noi stessi migliorare la qualità della nostra consapevolezza per migliorare la qualità della nostra intenzione.

Sarebbe un peccato se la possibilità di indagare attraverso l’imaging il nostro cervello, che all’inizio segnò la morte del comportamentismo (la dottrina secondo cui agiamo solo attraverso risposte condizionate da uno stimolo)  diventasse un neo-comportamentismo, relegando il ruolo della coscienza intenzionale a passivo recettore dell’organizzazione cerebrale (specie una volta che si è scoperto come il nostro cervello sia neuroplastico, si riconfiguri adattandosi alle abilità e attitudini acquisiti durante la nostra vita). Insomma, riprendiamoci la coscienza.

Di |2020-09-11T15:11:15+01:0030 Novembre 2018|Motori di ricerca interiore|

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