Lo schiavista (Paul Beatty)

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“Foy non era certo un albero della conoscenza, al massimo poteva somigliare a un cespuglio dell’opinione”.  Uscite del genere, che per averne sette in un libro ci sono scrittori che darebbero un braccio, rappresentano per l’afroamericano Paul Beatty più o meno lo standard. Giustamente paragonato nello stile a Swift, non meno corrosivo nella satira, tutta rivolta in questo libro, vincitore del Man Booker Prize, all’irrisolta questione razziale dei negri (da parecchio tempo non leggevo con regolarità questa parola in un romanzo: ovviamente fa parte del gioco) negli Stati Uniti. Per descrivere il fallimento dell’integrazione Beatty mette in scena l’immaginario (ma non tanto) sobborgo di Dickens che, stravolto dalla gentrification, viene cancellato dalle mappe geografiche. Il protagonista Bon Bon individua una soluzione identitaria non solo nel farlo rivivere ma pure nel ripristinarvi la segregazione razziale, superato nel revisionismo da un amico del padre che desidera tornare alla condizione di schiavo. Sprezzante verso i neri integrati (nell’ultima pagina si domanda perché tanto entusiasmo nella comunità “quando si è insediato quel tizio nero”), profondo e condensato nelle analisi psicologiche che fioriscono dal monologismo teatrale del personaggio, Lo schiavista è un costante capolavoro d’intelligenza. A volte perde il passo della narrazione e sembra più un pamphlet, in altre il linguaggio scoppiettante e le citazioni sfiorano il barocchismo e, insomma, manca un po’ di calore. Ma si diceva giusto che somiglia a Swift.

 

Paul Beatty

Lo schiavista

Fazi

Di |2020-09-11T15:16:59+01:0016 Dicembre 2016|Libri consigliati|

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