Recensione del film “Unorthodox”

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Una splendida miniserie su Netflix

 

Cosa distingue maggiormente le serie tv dal cinema? Probabilmente l’organizzazione della storia. Una serie non focalizza mai la camera solo su un personaggio incalzandolo con sequenze cronologicamente lineari. Ci sono sempre blocchi alternati: le scene del protagonista sono inframmezzate da scene di quel che si muove in opposizione a lui e da flashback. Non è che un film non possa avere questa stessa struttura, anzi a volte è il suo fiore all’occhiello: ma nelle serie la dilatazione dei tempi la rende sia una risorsa (se un film ne abusa diventa troppo frammentato) sia una necessità (la serie ha bisogno di essere spezzata narrativamente e le occorre aiutare la memoria degli spettatori con i flashback). Ovviamente l’articolazione diventa ancora più caleidoscopica quando i protagonisti sono più di uno, non in unità di tempo e di azione. E la durata della serie influenza la quantità di flashback e filoni oppositivi alle scene del protagonista.

 

Unorthodox è una miniserie (quattro puntate ciascuna da poco meno di un’ora), quindi la tripartizione protagonista/opposizione/flashback è ridotta all’essenziale: ma ha un equilibrio mirabile, ed è particolarmente significativa perché bisogna attendere la fine dell’ultima puntata perché tutto (memoria compresa) si ricomponga. Le scene della protagonista riguardano Esty, una giovanissima ebrea newyorkese della comunità ultra-ortodossa di Williamsburg, invischiata in un matrimonio da subito infelicissimo, e che con un bambino in grembo decide di scappare a Berlino, dove tra l’altro vive sua mamma, anche lei transfuga a suo tempo – ciò che Esty ha vissuto come abbandono, recidendo i contatti con la genitrice. Le scene di opposizione riguardano la reazione della comunità chassidica, scioccata specialmente dalla circostanza che l’atto di ribellione implichi l’allontanamento del discendente. Si decide così di spedire sulle tracce di Esty un ultra-ortodosso poco ortodosso, peccatore incallito con il vizio del gioco, un passato torbido e oscuro dal quale redimersi almeno formalmente, scaltro e intraprendente, Moishe, che sembra uscito dalla penna di Isaac Bashevis Singer; è accompagnato dal marito di lei, Yanky, un giovanotto studioso di Talmud e succube della madre che lo sviluppo della vicenda avvicina a sentimenti meno eterodiretti. In mezzo, poi, i flashback che documentano il percorso dalla promessa di matrimonio alla sua problematica consumazione, e infine alla fuga.

 

La costruzione artistica, e al tempo stesso ideologica (detto in senso positivo) di questa storia di emancipazione femminile è che l’evidenza del disagio di Esty è consegnata interamente ai flashback e alle scene di opposizione: è resa cioè oggettiva al massimo grado. Esty non ha tempo (né necessità) di intrattenerci con quel che pensa della vicenda, e nemmeno di palesarci la somatizzazione dei suoi tormenti (una volta che è proprio in crisi si ritira in bagno, e non la vediamo né noi né i suoi nuovi amici). A Berlino, mentre compie riti per far riemergere il suo corpo azzerato, punta decisamente un suo vecchio sogno, legato alla musica, attività nella quale ha scoperto di essere dotata ma che le sarebbe rimasta preclusa presso la comunità; e trova un gruppo multietnico di ragazzi aspiranti concertisti che un po’ la incoraggia e un po’ la ridimensiona con qualche eccesso di franchezza. Lo realizzerà questo sogno? La soluzione finale è sorprendente, deliziosa, non scontata. E, in un certo senso, offre anche una conciliazione tra la conservazione delle radici e la libertà di oltrepassarle.

 

La regista Maria Schrader utilizza con molta ricchezza i mezzi espressivi (segnalo fra i tanti le inquadrature dei primi piani e le sfumature pallideggianti); soprattutto è perfetta la sceneggiatura di Anna Winger, creatrice e produttrice, e Alexa Karolinski. Completa il quadro il precoce carisma dell’attrice israeliana Shira Haas, nella parte di Esty. C’è però, proprio nella recitazione, una sconcertante dissimmetria: tanto sono bravi gli interpreti degli ultra-ortodossi, tanto sono dozzinali, buoni al massimo per una sitcom, i giovani attori della parte tedesca. In verità anche la scelta dei luoghi berlinesi è molto canonica e sbrigativa. Potrebbe trattarsi di una prova della fungibilità del punto di arrivo: ma troppa è l’insistenza sul fatto che sia scandaloso approdare proprio nella capitale della Germania. Alle autrici, però, interessava soprattutto non perdere per strada nessun dettaglio, costumistico o psicologico, del punto di partenza. E della comunità chassidica restituiscono l’omogeneità ma anche quel che internamente ne devia, l’autoritarismo oppressivo, fobico e retrivo ma anche alcuni tratti di dignità. L’opera è tratta, con qualche scostamento, dal romanzo autobiografico di Deborah Feldman. Ulteriore peculiarità: il parlato è quasi interamente yiddish.

 

Nel 2012 aveva vinto la Coppa Volpi al Festival di Venezia l’attrice de La sposa promessa, della regista Raama Burshtein, che presentava lo stesso tema con una variante di contenuto ed esplorava un ambiente culturalmente un po’ più elevato – e quindi meno implacabile, ciò che aveva dato alla Burshtein la libertà interiore di concludere il film molto diversamente da come finisce Unorthodox. Curiosamente (o citazionisticamente), il film cominciava con una scena di selezione matrimoniale occulta dentro un supermercato, che è stata praticamente clonata per questa serie.

 

Unorthodox

Maria Schrader

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2021-01-02T08:31:37+01:0030 Aprile 2020|Il Nuovo Giudizio Universale|

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