Recensione del film “In guerra”

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A chi già vent’anni fa era convinto che la classe operaia non esistesse più il film “In guerra”, più che preistoria, parrà fantascienza.

Non è forse vero che a mettere sotto sopra la Francia di questi giorni sono invece i gilet gialli per via dell’aumento di sette centesimi del gasolio e l’avvio della transizione energetica? Quando mai i media si occuperebbero con tanta insistenza dell’esubero di 1100 operai e delle agitazioni che ne conseguono?

E quest’ultima, in effetti, è una delle poche esagerazioni del film, perché i licenziamenti collettivi stancano presto i lettori, e per osmosi i media, che servono sul piatto solo ciò che avvince il pubblico: se tanti sono convinti che la fabbrica sia culturalmente sparita è anche perché i giornalisti si sono stufati di raccontarla, rendendola mediaticamente invisibile.

 

Ecco dunque che il regista Stephane Brizé, con alle spalle una pellicola tematicamente analoga, La legge del mercato (e, a riprova di una notevole versatilità, un’altra che trasponeva un racconto di Maupassant), offre il suo contributo alla rimozione dell’oblio e prende di petto la questione. La trama consiste puramente e semplicemente in questo: nel paese di Argen una fabbrica di produzione della multinazionale a trazione tedesca Perrin, che produce apparecchiature in auto, è in procinto di essere chiusa per delocalizzazione. La Perrin sta violando in questo modo un accordo di due anni prima col sindacato, che aveva accettato il blocco salariale in cambio di un piano della durata di cinque anni, facendo ottenere all’impresa anche delle sovvenzioni statali. Gli operai, sotto la guida del sindacalista Laurent Amedeo (Vincent Lindon), interrompono la produzione e chiedono un incontro con l’amministratore delegato tedesco.

Benché il finale riservi un’accelerazione inattesa degli eventi, ciò che nell’insieme viene descritto non è un’evoluzione ma un ristagno. Quel che più impressiona è l’assoluta mancanza di interazione delle argomentazioni contrapposte, nonostante il tentativo di ricucirle da parte di un rappresentante dell’Eliseo. Il film diventa così anche una metafora della politica odierna, della sua sofferenza dialettica e della sua impotenza. Ma neanche è troppo il caso di cercare significati reconditi ed allegorici: In guerra persegue un realismo radicale incentrato su uno scontro classico di relazioni industriali quale dramma collettivo. Per questa ragione espunge quasi interamente le vicende personali dei numerosi protagonisti, infilando piuttosto una serie di istantanee della loro rivendicazione. La mancanza di prospettive sul piano sociale denuncia da sola la sua inevitabile ricaduta sulle prospettive individuali, e soffermarsi sui singoli destini costituirebbe un irrilevante fattore di distrazione.

 

Per l’efficacia di questo realismo Brizé non trascura nulla. Affianca al fenomenale Vincent Lindon attori dilettanti che interpretano i loro ruoli sociali. Inserisce spezzoni di notiziari dedicati alla vicenda (che ovviamente essendo fittizia la storia sono a loro volta fittizi: siamo dunque nel campo del mockumentary). Ma soprattutto restituisce una fisicità incalzante grazie ad alcuni accorgimenti: frequente uso di cinepresa a spalla, ridotta distanza della macchina dalla scena, perturbazione dinamica dell’immagine, focalizzazione sul contatto fisico e sulla tensione che lo precede o lo contiene, impeccabile commento musicale di Bertrand Blessing che contamina un upgrade thriller di Jean Michel Jarre con qualche sonorità nu metal. Lo spettatore viene trascinato dentro scene in cui già stanno stretti i protagonisti e ne esce con una claustrofobia raddoppiata dalla sterilità dialogica di ogni discussione che si accende nel film, pure quelle interne al movimento dei lavoratori. L’onestà intellettuale di restituirle in una integrale verosimiglianza paga un dazio estetico, nonostante il ritmo attenui tale difetto. Una crepa nella corrispondenza col reale, invece, riguarda le modalità espressive del padronato: una certa rozzezza culturale negli schemi e l’idolatria del profitti contraddistinguono il capitalismo liberista ma nessun imprenditore del ramo mai esporrebbe ciò al pubblico con la grossolana schiettezza rappresentata nel film. Forse era una necessità interiore di Brizè compensare in questo modo la franca messa in scena della disperata ottusità dei lavoratori e meglio sottolineare l’abisso di dignità che separa le due parti.

 

Uscito nelle sale in un importante anniversario marxista il film potrebbe sembrare una celebrazione della sua eredità, visto che riporta alla luce gli sconfitti della globalizzazione. In realtà, la coscienza di classe degli operai non ha qui alcuna prospettiva sistemica (di qualsiasi genere, non solo rivoluzionaria) e si risolve nella speranza a-politicizzata di mantenere il proprio posto di lavoro o, per i più impauriti, di rosicchiare qualche migliaio di euro in più da una liquidazione che pure rischia di tagliarli fuori per sempre dall’occupazione. Accade così che il muto vincolo di solidarietà, pur raggiungendo apici commoventi, sia costantemente vicino al precipizio, e diverse volte in fondo allo stesso.

 

L’impegno militante del regista non sconfina in una compiuta e attiva posizione ideologica; del resto il film mai scioglie incontrovertibilmente il nodo delle cifre inerenti la produttività della fabbrica di Argen. O forse l’apporto ideologico di Brizé è proprio suggerire che di quelle cifre ce ne frega fino a un certo punto, perché comunque i conti morali non tornano.

 

In guerra

Stephane Brizé

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:11:35+01:0029 Novembre 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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