Recensione del film “Gli spiriti dell’isola”

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C’è gente che darebbe un dito per un amico, anche se è terribilmente noioso. La scintilla narrativa de Gli spiriti dell’isola è invece un personaggio che darebbe il dito per un amico, anzi un ex amico, proprio perché è noioso. Siamo su un’immaginaria isola irlandese del 1923 dove l’immutabilità della vita rurale guidata dal ritmo delle stagioni non viene scossa neppure dall’eco delle cannonate della guerra civile che proviene dall’altra costa. Nell’isola il conflitto non attecchisce e tutti si salutano più o meno cordialmente sino a quando un mancato saluto scatena il caos. Accade che Colm (Brendan Gleeson), senza un’apparente causa scatenante, smetta di guardare in faccia il suo migliore amico Padraic (Colin Farrell) con il quale condivideva le chiacchiere confidenziali e la quotidiana birretta al pub. Incalzato, Colm gli svela l’arcano: Padraic non gli va più a genio. Non gli ha fatto nulla, e in un certo senso questo è il problema. Padraic è un sereno e zotico allevatore di bestie che lo intrappola in ciarle futili (tipo, il giorno prima, gli escrementi del suo cavallo) sottraendolo all’elevazione di un’esistenza più profonda: questa è la rimostranza. Ma cosa diavolo se ne vorrebbe fare Colm di quel tempo recuperato? Comporre musica ed eseguirla coll’amato violino, nella speranza che l’uzzolo dell’arte gli ispiri prima o poi un capolavoro da tramandare ai posteri, come quelli di Mozart. Padraic non si rassegna, la sua psiche trainata dal sistema limbico esige di rubricare l’evento come un dissapore da ricomporre. E allora Colm, che ha intuito la potenza responsabilizzante della scelta di vittimismo, lo avverte: lo sai cosa faccio se mi stai ancora tra i piedi? Mi taglio un dito. E se continui me ne taglio ancora. E da qui il film macina le sue due ore, con una progressione di eventi inesorabile, mentre il fuoco ogni tanto si sposta su altri personaggi, in particolare la sorella di Padraic, che ha l’assurdo vizio di leggere libri e per questo è considerata troppo bislacca per un corteggiamento, o lo scemotto del villaggio, che forse così scemotto e insensibile alla fine non è, e poi vorrei vedere voi a scontare il trauma quotidiano di un padre violento, alcolizzato, viriloide e abusante che nel paese si fa forte della sua divisa.

Non si può negare che l’idea è molto originale, e che tutte le figure, persino quella che compaiono per pochi secondi, sono sempre caratterizzate in modo coinvolgente. E che la fotografia è incantevole (il paesaggio puro però da solo fa più del fifty-fifty con i meriti umani), la musica ben aderente, il duo di attori e i comprimari (pure gli animali, specie un’asina e un cane) sono interpreti perfetti. Ma soprattutto, ogni dieci minuti, emerge una traccia tematica non scontata della quale si aspetta uno sviluppo: prima la noia nelle relazioni affettive statiche (perché Padraic obiettivamente è noioso); poi l’anelito a sforzarsi di valicare i propri limiti, e al tempo stesso l’ottusità nel non prendere atto di quegli stessi limiti (perché obiettivamente non è che Colm valga granché come compositore, e quei quattro beoti con cui si trastulla durante la musica non è che siano tanto più brillanti di Padraic). Poi il valore profondo della gentilezza (Padraic lo rivendica per sé con molta e giustificata tenerezza). Poi il modo in cui una piccola tensione individuale sia in grado di trascinare nel baratro le comunità chiuse. Poi la perdita dell’innocenza. Poi lo smottamento morale che può conseguire a uno smarrimento d’identità. Eh, ma potrei continuare.

Allora dura dieci ore questo film, penserete. E cos’è? Il Re Lear? I Fratelli Karamazov? Qui la nota dolente. Il regista Martin McDonagh, come un bimbo capriccioso che si stufa subito dei suoi giocattoli, ne abbandona uno per passare all’altro, dopo essersi accontentato di mostrarci la sua indubbia intelligenza nel trovare modi non convenzionali per introdurre un discorso morale complesso. Con il medesimo disinteresse per la stabilità, non si limita a far compiere un percorso di cambiamento interiore a Padraic: è come se a due terzi della partita entrasse al suo posto uno dalla panchina.

Colin Farrell and Kerry Condon in the film THE BANSHEES OF INISHERIN. Photo by Jonathan Hession. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2022 20th Century Studios All Rights Reserved

E se come me avete ammirato la capacità di accompagnare visivamente l’intensificarsi del dramma che rese straordinario il suo Tre manifesti a Ebbing, Missouri, non fatevi illusioni stavolta: la macchina da presa è disallineata dal tessuto visionario della trama. In parte la spiegazione è nel fatto che quest’opera nacque per il teatro 15 anni fa e così è rimasta, salvo il rimescolamento del post-beckettismo for dummies con spruzzate estetiche di horror-fantasy e un’organizzazione in stile western del rapporto spaziale tra i protagonisti. La prova che la critica si è fatta un po’ annebbiare dalla raffinatezza di certi tocchi magici è l’esaltazione che fa della scelta di mettere sullo sfondo la guerra civile: che in realtà è solo il paradigma di quanta stilizzazione abita la pellicola. Se si vuole vedere un buon film ce n’è d’avanzo. Però se McDonagh ci lavorava ancora sopra, o sceglieva di approfondire una traccia tematica ogni sei, era meglio.

Gli spiriti dell’isola

Martin McDonagh

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2023-05-12T15:23:24+01:0024 Febbraio 2023|Il Nuovo Giudizio Universale|

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