Recensione del film “Ritorno a Seoul”

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“Lo sai che potrei cancellarti con uno schiocco di dita?”. Questo dice la protagonista del film a una persona che giustamente ne resta stupita (ci rimaniamo di sasso noi che stiamo guardando il film!), perché ha appena dato una prova di amore e attaccamento rilevante. Ma d’altronde Freddie, la ragazza che la pronuncia, ha appena subito da un’altra persona un piccolo trauma, qualcosa di simile alle dita che schioccano e ti fanno sparire, qualcosa che si potrebbe per analogia riassumere nel chiamare un taxi e caricarti dentro quasi a forza comandando al tassista l’indirizzo della stazione, e non è solo un’analogia ma quel che effettivamente è successo. E Freddie si trova così di nuovo abbandonata nel gelo interiore, risospinta all’indietro in quell’incubo di non appartenenza, vuoto d’identità, spedita verso altra destinazione perché non conta, non la vogliono, e la sua reazione disperata è il brivido di esercitare quel potere dismissivo verso gli altri.

All’inizio di Ritorno a Seoul, Freddie ha venticinque anni: è nata in Corea ma è stata adottata da una coppia francese da piccolissima, quando nemmeno era riuscita a cristallizzare un solo ricordo. La bambina è stata trattata bene ma dentro le è rimasto un fosso che crescendo si è spalancato in voragine: Freddie non è integrata non nel senso, che di solito intendiamo per gli immigrati, di mancato inserimento nella comunità di arrivo. Non è integrata con sé stessa. Non si dà pace che i genitori di sangue abbiano voluto disfarsene, non le sembra di potersi conoscere a sufficienza se non sa nulla della cultura in cui è nata. Così, con un improvviso colpo di mano rispetto ai genitori adottivi, piomba nella capitale coreana. La prima scena, nella sua sofisticata semplicità è incantevole e ci preannuncia che assisteremo a un film bello e potente: Freddie arriva nella hall di un bed e breakfast dove una coetanea sta sentendo un brano di k-pop (molto contaminato, in verità) e prima di entrare nei dettagli della ricerca di camere le chiede in prestito la cuffia per ascoltarlo. Giocato interamente sullo scambio dei primi piani, questo minuto descrive con delizia l’avvicinamento, l’esplorazione, il dubbio, l’intesa, il confine.

Ritorno a Seoul è diviso in tre archi temporali. Nel primo Freddie, attraverso il potente centro Hammond che gestisce le adozioni, cerca di entrare in contatto con i genitori naturali. In principio, le riesce solo col padre, uno sbevazzone incallito dal quale apprende i dettagli e le ragioni della sua partenza e che sogna in modo inappropriato e ottuso di recuperate il tempo perduto facendone un’educata signorina coreana da instradare verso un sano matrimonio. Nel secondo, anche in attesa di un’ipotetica risposta della madre che continua a negarle l’incontro propostole attraverso i telegrammi previsti dalla procedura, Freddie riesce a farsi assumere da una multinazionale che le consente di vivere in Corea e ne abbraccia, con un tardivo senso del ribellismo adolescenziale verso tradizioni che nemmeno conosce, la dimensione orgiastica, tattoo e cyber-punk. Nella terza prova a chiudere il cerchio del suo annaspare identitario e pare quasi riuscirci a modo suo (mi riconoscerò quando sarò indipendente, saprò accettarmi quando sarò io a rifiutare) se non fosse che un colpo di scena la costringerà a orientarsi verso nuove e, appena abbozzate, direzioni.

Delle tre parti, la prima e la terza sono impeccabili, la seconda no perché tradisce quella capacità di navigare nei dettagli opachi, che le altre due conducono magnificamente. La seconda mostra troppo, cade sia nel didascalismo che nell’enfasi estetizzante, calca un po’ troppo la mano sul maledettismo interiore del personaggio: nell’insieme, comunque, il profilo psicologico viene disegnato con coerenza (ispirato liberamente a un’amica del regista che ha partecipato alla sceneggiatura) e ci restituisce una donna segnata da una ferita iniziale non rimarginata, afflitta da coazione a ripetere, sostanzialmente anaffettiva ma con impulsi sentimentali repressi, più propensa a prendere che a dare, socialmente spregiudicata, eppure estremamente franca e tenera nella fragilità e nella caparbietà, che dunque intercetta l’empatia degli spettatori – una quota non irrilevante del merito di ciò va attribuita all’eccellente esordiente Ji-Min Park.

Molto riuscita è l’idea di mostrarci la comunicazione di Freddie con il padre attraverso delle traduzioni, che sono puntualmente infedeli per il nobile (ma spesso sviante) sforzo che ogni interprete opera di allontanare l’offesa e lasciare un margine in più per cucire il difficile rapporto. Il bravissimo regista Davy Chou esibisce il suo talento soprattutto in due specialità: primi piani dietro i quali si disegna uno sfondo che ha dei legami espressivi o metaforici con l’argomento di conversazione; la dispersione del nitore d’immagine nella frenesia di scene, per lo più di ballo, avvolte dentro una colonna sonora intensa e risucchiante.

Ritorno a Seoul

Davy Chou

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Volevo fare un piccolo regalo ai lettori del wrog, in questa Pasqua tanto strana. Così ho pensato di raccogliere in un eBook tutte le recensioni cinematografiche scritte in oltre tre anni.

 

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2023-08-04T12:15:58+01:0025 Maggio 2023|Il Nuovo Giudizio Universale|

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