Recensione del film “Maigret”

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Nei giorni in cui spopolano le serie, i gialli e i noir, il grande schermo ripropone dopo una lunga assenza il simenoniano, mitico commissario Maigret: alla veloce proprio come se ci fosse alle spalle una scia di episodi noti agli spettatori, in una Parigi cupa e piovosa che calzerebbe a un noir, chiamato a risolvere un crimine che appare a lui come un mistero fittissimo, quello di una donna trovata assassinata per strada, senza documenti, che nessuno conosce, senza un testimone e prima che abbiano inventato l’esame del DNA. Il mistero per gli spettatori, tuttavia, non è così fitto, perché già nelle prime scene sono stati a un passo dall’assistere al misfatto e possono dare per certo il chi, anche se non il perché; il ritmo non è quello del noir, bensì della passeggiata fondista; e chi Maigret non l’ha mai letto può procedere per intuizioni, proprio come deve fare lui nell’indagine, e se poi l’ha letto lo riconosce solo in parte, non gli torna con l’età dell’attore, non gli vede fumare la sua pipa dato che il medico non è affatto contento dei suoi polmoni. E se ha letto il libro del caso di cui si occupa Maigret (Maigret e la giovane morta) constata che il regista l’ha utilizzato con una certa libertà.

Ovviamente a un navigato e raffinato autore come Patrice Leconte queste contraddizioni non cadono per accidente sull’alluce da una mensola. Esse costituiscono la sfida del film, per il momento persa al botteghino e però affascinante per chi non sia strettamente in cerca di un giallo, di un noir e di una serie (tra l’altro Leconte ha già chiarito: questo e basta). Il titolo, sintetizzato appunto nel nome del commissario, annuncia già di suo la liberazione da ogni fronzolo e un certo grado di astrazione speculativa, prima che estetica e poliziesca. Certo, coerentemente con il personaggio letterario, il commissario non è tipo da inchieste machiavelliche focalizzate sull’incastro degli indizi. Per Simenon, che scriveva quei gialli per guadagnare e nei ritagli di tempo fra gli altri romanzi, il delitto era l’occasione per esplorare atmosfere e psicologie individuali. Al riguardo il film è piuttosto fedele, in verità più visivamente che nello snodarsi della trama del crimine, che Leconte non si spinge a togliere mai dal cuore della scena. E magari un po’ di coraggio in più sotto questo profilo non sarebbe guastato.

A parere quasi unanime, la forza del film è l’interpretazione di Gerard Depardieu: forse si fa torto a Jean Gabin nel pretendere di fissarne il Maigret perfetto, ma di sicuro è la perfezione per questo Maigret, assai più malinconico e appesantito (fisicamente) dell’originale, stanco, quasi schifato (un’inappetenza, poi), che si lascia ancora tirare per il bavero dalla vita quando raccorda, per empatia, l’omicidio di quella ragazza con il suo lutto, e trova in ciò – oltre che nell’abitudine, che la somma mestizia non riesce a seppellire – la forza intellettuale per venire a capo dell’indagine: procedendo per rabdomanzia, random, flâneur dentro il buio di una Parigi nascosta dentro una schiera di  colori più in bianco e nero che si possano concepire trattandosi di una schiera, cercando piste assurde che si dissolvono in un amen e imbroccandone altre non meno aleatorie. Con l’animo di chi pensa ormai che un caso risolto in più non cambierà nulla nel mondo e la mole e il male fisico di chi che non riesce più a salire le scale, entrambi proiettati in una lentezza cinematograficamente soave, per chi ha ancora voglia di apprezzarla.

Maigret

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

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Cercate di trarre di buono tutto quel che potete da queste giornate pasquali, e auguri.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2023-01-05T18:44:00+01:007 Ottobre 2022|Il Nuovo Giudizio Universale|

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