Recensione “Ditegli sempre di sì”

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Portarsi bene l’età, specie nel lungo periodo, viene meglio alle opere teatrali che agli esseri umani. Ma rimarrà egualmente stupito chi per la prima volta assiste alla commedia “Ditegli sempre di sì”, di Eduardo De Filippo, approfittando della tournée con la regia di Salvo Andò di quella che fu la sua compagnia: passata, dopo la morte del figlio Luca, al quale è ancora intitolata, nelle mani della moglie di questi, Carolina Rosi (figlia del grande regista). Sono passati 92 anni dalla sua scrittura, e due aspetti, in particolare, sono sorprendenti: l’attualità degli scambi di comicità verbale (cioè, non è sorprendente che non invecchi la comicità di Eduardo: ma questo è un lavoro fondato sui calembour e su passaggi quasi cabarettistici, che normalmente patiscono di più il tempo). E la visione chiara del problema che rappresenta il rapporto tra il folle e la sua famiglia, in un tempo così lontano dalle discussioni sulla legge Basaglia (e assai male interpreterebbe chi pensasse a una perorazione sull’utilità del manicomio).

 

La storia, nelle sue linee generali, è semplice: Michele Murri, dopo un anno trascorso segretamente al manicomio, viene dichiarato guarito e torna a vivere a casa della sorella vedova, Teresa. In realtà il suo equilibrio è molto fragile. Egli stesso, infatti, lo individua nella capacità di seguire il filo logico contenuto nei discorsi. Ma un simile attaccamento lo lascia malamente esposto a tutti gli usi del linguaggio che si discostano dall’immediata aderenza delle parole alla realtà: ovvero quelli che vengono pronunciati in via ipotetica, seguendo un percorso di fantasia, e quelli che adoperano le parole come metafora. Il guaio di questi fraintendimenti è che Michele è persona attiva, che agisce subito per dar loro seguito o per condividerli. Suscita così ingiustificati entusiasmi o prematuri cordogli, e tratta per combinare matrimoni lontanissimi dal desiderio della persona che vorrebbe favorire. O interrompe di continuo la recita poetica (parecchio schizzata a sua volta) di uno studente aspirante artista criticando tutte le (poetiche) violazioni del rigore analitico. “Parlamm’ co è parole justa ca si no’ m’broglio!” supplica frequentemente gli interlocutori.

 

La commedia, la terza scritta da Eduardo e come tutte quelle della fase iniziale fortemente influenzata dall’impianto pirandelliano, è certamente minore nelle ambizioni rispetto ai capolavori che la seguirono. Eduardo la destinò, quale primo interprete, a Vincenzo Scarpetta, a conferma del carattere farsesco. Nel tempo tuttavia ci si affezionò molto, perché a parte la solidità dell’umorismo esilarante, scavava con leggerezza solo apparente nella definizione dalla pazzia e instillava abilmente il dubbio che il confine tra il sano e malato fosse labile e socialmente determinato. In effetti, tutti i protagonisti si comportano in modo poco razionale e troppo facilmente abboccano alle involontarie trappole tese da Michele per assecondare i loro desideri reconditi e repressi. E il modo in cui tutti sono spaventati dalla figura idealtipica del pazzo, additando qualcuno (diverso da Michele) come tale, sulla scorta di testimonianze molto sommarie, dimostra che sono inconsciamente afflitti dal terrore di essere rivelati nella loro, di follia.

 

La qualità attoriale della compagnia che discende da Eduardo è ovviamente sempre fuori discussione (salvo proprio Carolina Rosi, che offre un’interpretazione più spenta che rassegnata di Teresa), e Gianfelice Imparato offre un’interpretazione di Michele Murri molto aderente alla lezione di Eduardo. Merita segnalazione la prova di Edoardo Sorgente nel ruolo dello studente; e la spoglia scenografia eccelle nel sovrapporre con un minimo spostamento di dettaglio un ambiente ospedaliero a uno sobriamente domestico.

Rispetto alla famosa versione della Rai, c’è però un’accelerazione dei tempi espressivamente dannosa. Con Eduardo in scena l’azione veniva leggermente dilatata per dare il senso delle torsioni mentali di Michele. Qui tutti si tirano addosso le parole d’un fiato, come se fosse quella frenesia il test dimostrativo della follia che gira nell’aria.

 

Faccio un esempio. In una delle scene più divertenti, Ettore, un uomo inseguito dai creditori, di passaggio a casa Murri, se la dà a gambe appena sa che sta arrivando la sua innamorata, Olga. Michele, come al solito, è stordito dall’infrazione delle regole: se è la fidanzata, perché non ha piacere d’incontrarla? E lui ribatte che non vuole raccontare del suo guaio. Se vincesse un terno al lotto sarebbe diverso. “Allora venesse ‘cca e te diciaria: Miche’, so’ ricco. Aggio vinciuto duecentocinquantamila lire. Mò me piglio Olga e m’a sposo pecchè so’ ricco”. Inutile dire che Michele lo prende alla lettera e appena arriva Olga le racconta la buona novella: Ettore ha vinto al lotto, è ricco e per prima cosa intende sposarla.

Tra l’uscita di Ettore e l’arrivo di Olga non c’è qui soluzione di continuità. Nel testo originale la battuta di Michele, frammista tra i due momenti e della quale qui non vi è traccia, è: “Bravo! M’ha fatto piacere. Proprio nu bellu colpo. Quello mò aggiusta tutti i fatti suoi”. Nella sua recitazione Eduardo lasciava al flusso degli eventi il tempo di scorrere e scompaginarsi nella stanza e sul suo volto, e poi esclamava senza troppa enfasi: “M’ha fatt’ piacere, a’ verità!”. Sarebbe quasi bastata quella scena per riassumere tutta la commedia. Che invece, i  qualche eccesso d’impeto, tende, nella descrizione emotiva, a riassumersi da sola.

Che dire…m’ha fatt’ piacere, a’ verità!

 

Ditegli sempre di sì

di Eduardo De Filippo

attualmente al Teatro Diana di Napoli, in tournèe sino ad aprile 2020

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:17:27+01:0019 Novembre 2019|Il Nuovo Giudizio Universale|

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