Recensione del film “Cold war”

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Frammenti di una storia amorosa si sarebbe potuto intitolare questo film se avesse voluto citare Roland Barthes (una pessima scelta commerciale, sicuro). Perché di quindici anni di amore struggente l’essiccatore Pavel Pawlikowski,

il regista polacco già vincitore dell’Oscar per il film straniero nel 2015 e per intanto con questo premio alla regia dell’ultimo Festival di Cannes, ci restituisce il tutto in un’ora e venti. Come se in Titanic ci avessero mostrato l’imbarco e lo speronamento dello scoglio? Non proprio, perché Wiktor e Zula insieme ne passano non dico un’ora e venti ma davvero una manciata di mesi, pur rimanendo certi che si trattasse dell’amore della vita. E su quei mesi Pawlikowski colleziona un magnifico album di virtuali nozze, espungendo tutto ciò che non è rilevante e alla fine quasi tutto ciò che non è amorevole.

 

Il titolo invece è Cold War, e non è affatto pretestuoso, non solo per la collocazione spaziale e temporale. L’azione si svolge in effetti nella Polonia comunista negli anni ’50 e ’60, e il film con le vicende (e, diremo tra poco, ancor più le musiche) ne ricostruisce l’atmosfera politica e umana. Ma la ragione per la quale il titolo è più pertinente è che senza la cortina di ferro che rendeva ogni attimo di amore vissuto e perduto un azzardo e il preludio di una scelta di separazione o di nostalgia questi attimi non sarebbero tutti diventati un gigantesco senso di colpa, d’incompiutezza e di assoluto. Insomma, avremmo qualificato l’attrazione per quello che era, una passione erotica piuttosto morbosa (avvertimento per i pruriginosi; non si vede nulla) e non l’amore romanticamente ottocentesco che diventa. Se avessero abitato a Londra e Parigi i due si sarebbero resi conti di avere poco a spartire caratterialmente e culturalmente l’uno con l’altro, e se poi la cronaca si fosse svolta ai giorni nostri a un certo punto avrebbero semplicemente smesso di rispondere ai messaggi. Invece scopriamo che le dittature non creano solo martiri eroici ma anche amanti (eroicamente pronti a ogni sacrificio). Per questa rivelazione Cold War è un titolo causalmente (non casualmente) impeccabile .

 

Il dardo di Cupido viene scagliato all’audizione per comporre una compagnia popolare di canto e ballo. Wiktor, uno degli esaminatori, rimane subito folgorato da una delle candidate al talent (quello era nella sostanza), che sconta una pena condizionale dato che, usando le parole di lei, “suo padre l’aveva scambita per la madre e io gli ho fatto capire la differenza, con un coltello”. A Wiktor, che ha lo spirito libero dell’artista e un virtuosismo pianistico che aspira a palcoscenici più celebri, la Polonia comunista sta stretta, tanto più che pretende di sostituire nei testi i canti d’amore dei contadini con odi staliniste. E così invita Zula a fuggire con lui durante una trasferta a Berlino, che prima della costruzione del muro era il colabrodo del passaggio a occidente (per quello ci volle il muro, dal punto di vista dei russi), e lei non arriva, e lui non torna indietro. Si installa a Parigi e le occasioni di rivedere Zula si creano dapprima per la mobilità internazionale della compagnia di canto popolare (al seguito della quale viaggia un personaggio sociologicamente interessantissimo ed essenziale della trama) e poi perché i due si cercano e si ingegnano per raggiungersi. Il finale, da groppo in gola pur se espresso con estrema sobrietà, non è che la summa di questo cercarsi e raggiungersi.

 

Le emozioni sono movimentate parecchio dalla musica, che al tempo stesso funge da narratore, bussola, barometro e calendario, passando per canti popolari polacchi, melodie del folclore slavo, fumoso jazz di locali parigini, rock’n roll e sui titoli di coda variazioni goldberd bachiane. Alcune scene, come una cantata in immersione lacustre a mò dell’Ophelia di Dante Gabriel Rossetti, sono scolpite dal lirismo musicale.

 

Ma la purezza registica di Palinowski, in questo momento tra i principi del cinema d’autore, non è da meno. Bianco e nero in 4:3, montaggi che descrivono la sequenza con grande varietà espressiva e riposo costante in solenni inquadrature fisse, scene collettive di danza spezzate da folgoranti binomi di volti. Agata Kulesza, nella parte di Zula, è una trasformista degli umori, Tomasz Kot viaggia più uniforme coerentemente col personaggio e una certa risonanza di Ryan Gosling.

 

Cold War

Paweł Pawlikowski

Votazione finale

I giudizi

soli_4
Perfetto


Alla grande


Merita


Niente male


Né infamia né lode


Anche no


Da dimenticare


Terrificante

ombrelli_4
Si salvi chi può

Di |2020-09-11T15:09:18+01:0021 Dicembre 2018|Il Nuovo Giudizio Universale|

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