Monologhi dal carcere
Ai divertimenti e all’adolescenza che mi sono perso in questi sei anni riesco a non pensare quando faccio le barche. Prima mi faccio una forma con i bloc-notes e le matite per i pali e gli alberi, ci metto tutti gli stecchini, poi faccio i nodi facendo entrare il lenzuolo, lo rompo e tiro tutti i fili, ho imparato qui da ragazzo, ero in cella con uno, mi ha detto la vuoi fare una barca, io non ero capace neanche di fare un disegno, lui diceva guardami che impari, e ora faccio barche di due metri, i compagni di cella non si lamentano, potrebbero dire qua già stiamo stretti noi, tra un po’ ci stanno le barche e noi non ci stiamo, ma io le faccio anche per loro, per le famiglie, finora ne ho fatte una ventina, avevo pensato di mandarne una anche alla mia ex fidanzata, chissà come l’avrebbe presa visto che secondo me tutto immagina fuorché io faccia le barche, fuori siamo stati assieme otto mesi, mi hanno arrestato, dopo due anni mi ha mollato, ci sono rimasto male perché si è presa un altro come me, lei lo sapeva quello che facevo, mi diceva ti do i soldi io al posto di fare le rapine, ma io non posso accettare, e tutto quello che rubavo non davo niente a mia mamma però portavo la spesa a casa e la metà la usavo per la droga, per farmi, mio papà era già andato via, di fratelli siamo in cinque, quattro pregiudicati e uno no. Quando uno fa la rapina non mette in conto di andare in carcere o essere ammazzato, poi quando ti arrestano non pensi a altro, dici non lo farò più, poi ti comporti bene per avere i permessi o fare i giorni in meno, è sbagliato pretenderli, a me se li danno sono contento e se non me li danno hanno ragione, non escludo che potrei rifare quello che ho fatto, a qualche vittima ho pensato, se penso a quello che ho fatto mi metto a ridere, sono entrato in un negozio e quello non mi dava i soldi, ecco, quello mi fa ridere, invece quello che mi fa triste è quando puntiamo la pistola a persone povere, che se la fanno addosso, ma l’unico dolore vero è per mia madre, che già papà era stato in carcere 20 anni, e lei dice non ne posso più, ma al colloquio non ha mai saltato un venerdì in sette anni, sì, mi pesa la sua sofferenza, l’angoscia qualche volta mi prende, la solitudine, faccio il possibile per non pensarci, se non sono le barche faccio pulizie in cella, però il momento più brutto è stato l’isolamento, davvero si impazzisce, devi dormire, mi sforzavo a dormire, mi stancavo facendo addominali, chiami l’agente almeno per parlare, un giorno ho iniziato il tentativo di suicidio, la cosa píú brutta che ho pensato, ho detto agente stavo facendo questo, lui ha aperto la cella, mi ha fatto uscire qualche minuto, è stato bravo, alcuni sono bravi, altri provocano, e in isolamento per passare il tempo piú di una volta contavo le mattonelle, oppure mi mettevo a fare il gioco degli aranci, quello che fanno per strada, oppure a fare dieci volte la pulizia, per passare il tempo, ma la giornata non passa. All’assenza di donne penso tutti i giorni, vorrei una donna tutta per me, dormire con mia moglie, guardare un film accanto a lei o giocare con un figlio, una moglie che diventi anche una tua amica, hai qualche problema e vai da lei, trovo una cosa tremenda quando un detenuto parla male della moglie o racconta cosa faceva a letto con lei, lo faccio cosí, la metto cosí, una delle rare volte che mi sono arrabbiato con un detenuto metteva in piazza la moglie, ho detto questo discorso con me non lo devi fare, io vado d’accordo con tutti e mi piace scherzare, un’altra volta sola ho litigato, quando un compagno di cella che si era preso con un altro dice io non ci do niente a questo, non gli dare niente manco tu, e io mi sono rifiutato, perché pure l’altro era un amico mio.
Un libro in tre parti, diverse ma complementari. La prima, la pena pensata, risponde alla domanda “perché punire” e si confronta con le ipocrisie sottese all’attuale sistema. La pena applicata, traccia una minuziosa storia della prigione in Italia, con il supporto di materiali d’archivio, e oscilla spesso tra il drammatico e il grottesco. L’ultima parte, la pena vissuta, è una collezione di brevi monologhi, raccolti dall’autore sulla base di colloqui effettuati nei più importanti istituti di pena del paese: più che resoconto una narrazione, condotta sul filo di una tensione linguistica che mira a restituire nello stile la frammentazione e l’isolamento delle voci ascoltate.
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