Campioni del mondo

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Ai mondiali di Spagna del 1982, la nostra nazionale e il suo tecnico, che è ancora Enzo Bearzot, arrivano preceduti da una pessima stampa. Un quadriennio costellato di prove negative, sul piano sia del gioco che dei risultati, ha creato un clima di tensione tra i giornalisti e la squadra, che pare accompagnata anche da una certa freddezza del pubblico. Le belle partite di Baires sono un pallido ricordo.

L’esordio discreto contro la Polonia, in un match concluso a reti inviolate, diffonde un tenue ottimismo, subito smorzato dalla successiva gara con i modesti peruviani, nella quale gli azzurri se la cavano con un risicato pareggio. L’unica arma a disposizione dei nostri sono i funambolismi e le serpentine del romanista Bruno Conti sulla fascia destra. Nell’ultima partita del turno eliminatorio ci occorre un pareggio con gli africani del Camerun, che hanno dato prova di notevole tonicità fisica. Ma l’incontro è assai deludente, strano in quanto gli avversari, che pure potrebbero passare il turno solo vincendo, si dimostrano cauti e quasi rinunciatari. Su questa partita, a distanza di quattro anni, si leverà l’ombra di uno scandalo. Infatti, due giornalisti sul settimanale «Epoca» affermano che il pareggio fu comprato dagli azzurri. Il castello di prove, tuttavia, si rivela fragile e, al termine di una pioggia di smentite, a rimetterci sono proprio gli accusatori, uno dei quali viene anche allontanato dal prestigioso quotidiano al quale collabora. La sensazione è che, presi dal raptus dello scoop, i due siano stati poco accorti nel garantirsi la tenuta delle documentazioni raccolte e un po’ frettolosi nel divulgarle. Esposti al pubblico ludibrio, i cronisti, non senza ragione, affermano che nel nostro paese tutto si può mettere in discussione, fuorché le vittorie della nazionale di calcio.

Ma non ha del tutto torto nemmeno chi lancia sul loro capo l’accusa di fratricidio. Del resto che gli italiani siano fratricidi piuttosto che parricidi lo scriveva anche Umberto Saba, il quale indicava in questo dettaglio psicologico la ragione per la quale l’Italia non ha mai conosciuto una vera rivoluzione. Le rivoluzioni nascono dall’uccisione del padre, ma gli italiani, da Romolo e Remo in poi, hanno sempre ripiegato sull’uccisione del fratello. In effetti, pur essendo lodevole lo scrupolo di verità, la dimostrazione di una combine con il Camerun poco avrebbe tolto al senso dell’impresa sportiva, che comincia dagli incontri successivi.

A Barcellona ci aspettano le quotatissime Argentina e Brasile, e solo una squadra proseguirà il suo cammino nella competizione. Nessuno nutre dubbi sul fatto che questa non sarà l’Italia. I commenti dei giornalisti, che ormai sconfinano nell’insulto personale e nel dileggio astioso, determinano i nostri ad adottare il silenzio stampa. Non risponderanno più alle interviste. Anzi, per colmo d’ironia, rilasceranno le dichiarazioni essenziali solo attraverso il portiere Zoff del quale, per anni, si è creduto che fosse muto.

La principale pietra dello scandalo è l’impiego di Paolo Rossi che ha da poco finito di scontare la squalifica per la vicenda delle scommesse e casca da una parte all’altra del campo, senza mai offrire uno spunto apprezzabile.

Ma ecco che contro l’Argentina il rospo diventa principe e, contro ogni pronostico, i sudamericani vengono battuti. Le chiavi della partita sono l’arcigna marcatura di Gentile sul temuto Maradona, l’ispirazione di Conti, le tempestive chiusure del libero Scirea, ma è tutta la squadra a essere messa bene in campo. Cè ora da affrontare il Brasile che ha dalla sua un centrocampo tecnicamente insuperabile, composto dai celebri Zico, Falcao, Cerezo e Socrates. Il successo dell’Italia è forse la più bella pagina della storia nazionale del calcio. Completamente rigenerati, gli azzurri soffocano il Brasile anche sul piano del ritmo, lo aggrediscono piuttosto che attendere passivamente l’apertura di varchi che, peraltro, nella loro sconfinata presunzione, i brasiliani offrono generosamente. Il vantaggio italiano è immediato sul colpo di testa sotto porta di Rossi su un preciso spiovente di Cabrini. Dopo il pareggio di Socrates, Rossi si vede consegnata la palla da un incauto disimpegno avversario e riporta sopra l’Italia. Seguono frangenti di gagliarda e incerta battaglia, poi un gol dal limite di Falcao quasi spegne le speranze. Invece, sei minuti ancora, e un pallone schiacciato di testa da Graziani termina sui piedi del solito Rossi che lo spedisce in porta. Fantastico 3-2 ed è il trionfo. Gli azzurri potrebbero segnare ancora e alla fine l’eterno Zoff si prende la sua razione supplementare di gloria bloccando una precisa conclusione carioca.

Per le strade italiane si assiste a scene di indescrivibile entusiasmo. L’Italia, con altri due gol di Rossi, supera la Polonia in semifinale ed è sempre più vicina al titolo, da cui la separano solo i tedeschi. Nel nostro paese tutto passa in secondo piano. Anche l’atteso concerto dei Rolling Stones a Torino, anticipato al pomeriggio per non farlo interferire con la partita, e nel corso del quale Mick Jagger indossa una maglietta azzurra con il numero di Rossi e pronostica (indovinando) il risultato di Italia-Germania. A Madrid, per la finale, giunge anche il presidente della repubblica, Sandro Pertini, che già in patria era stato prodigo di esternazioni circa le vicende pedatorie di Spagna.

Con i tedeschi si potrebbe passare in vantaggio presto ma Cabrini mette fuori un calcio di rigore. Dalla tranquillità con cui gli azzurri reagiscono all’incidente si capisce che hanno la partita in pugno. Nel secondo tempo apre le marcature con la consueta deviazione sotto porta Paolo Rossi. E quando dopo sessantanove minuti di gioco con uno splendido diagonale Tardelli incrementa il

vantaggio, il suo urlo è l’urlo di trentasette milioni di italiani, col fiato sospeso davanti al televisore. Esultano, è ovvio, anche gli italiani all’estero, benché non sempre la telecronaca gli dia soddisfazione: il cronista della ABC, unica emittente americana collegata in diretta, annuncia, confondendosi con le regole del soccer, che con la rete di Tardelli siamo 14-0.

Anche Altobelli mette il suo sigillo e, con una rete nel finale dei tedeschi, si conclude 3-1. L’Italia vince la sua terza Coppa del mondo alla faccia degli avversari e, pensano in molti, dei giornalisti sportivi e della loro spocchiosa sicumera da esperti del nulla.

La stampa, in un catartico delirio di autoespiazione, procede alla beatificazione di Bearzot, alla bearzotificazione. Di lui si riconosce che è il migliore allenatore del mondo e tutto quel che si può: uno dei giornali più spietati nel tiro al bersaglio rivela perfino che da giovane era bellissimo e puntualizza che il naso, apparentemente contraria certificazione, si è ridotto male a forza di pallonate, sorvolando benignamente sulla conformazione mandibolare, sinistramente mesozoica.

È certo che Bearzot capiva di calcio più dei suoi detrattori, ma questo non è un gran complimento. Di sicuro non si ottengono quei risultati senza superiori qualità, specie se si considera che le squadre di club ancora non erano tornate a brillare e dunque non regge la tesi dei giocatori che sopperivano alle carenze della tattica. Bearzot fu buon conoscitore di uomini e schemi, dispose la squadra di rimessa aumentando le caratteristiche offensive dei difensori esterni, imponendo una maggiore coralità alla manovra, non rinunciando mai a una seconda punta che sapesse vedere la porta, pur richiedendo compiti di copertura sia a lei che al tornante. Non recise il cordone ombelicale con il difensivismo italiano, tant’è vero che nella finale, costretto a rinunciare al sopravvalutato rifinitore Antognoni, lo sostituì con il giovane Bergomi, terzino marcatore puro. Ma vi è una distanza di anni-luce dal vecchio catenaccio da cui qualcuno, pur di non ammettere la propria miopia, pretendeva fossero sgorgati i suoi successi. La vittoria mondiale, tuttavia, ha motivazioni psicologiche prima che tattiche. Le grandi imprese sportive trovano la propria fonte prima nella motivazione a compierle, nel farne un obiettivo nel quale si immerge senza riserve la totale personalità e certo pochi furono motivati a dimostrare al mondo che li irrideva la propria validità agonistica come quei calciatori nell’82. E Bearzot, uomo dolce e pronto a privilegiare sempre la logica e la difesa del suo gruppo, divenne per tutti loro un riferimento essenziale. Significativa fu la trasformazione di Rossi, tecnicamente inesplicabile. Rossi, in realtà, al mondiale era e rimase un giocatore finito, come il futuro avrebbe dimostrato, distrutto da due anni di inattività e dai precedenti infortuni, ma la carica agonistica e la concentrazione gli consentirono di sfruttare al meglio l’ancor felice senso della posizione, i riflessi e la buona sorte. Una volta di più visse sportivamente agli estremi, nonostante il suo essere un signor Rossi. Trattato da avanzo di galera alla fine della squalifica, divenne un mito popolare e tutti, ragazzini e adulti, sognavano di segnare non in sforbiciata o dribblando cinque difensori ma con un gol «alla Rossi». A porta vuota, da due metri e magari

con lo stinco.

Il successo dell’ltalia produsse una forte impressione in tutto il mondo, travalicando ampiamente i confini della vicenda sportiva. Fra l’altro fu un anno vittorioso in molte altre discipline e di ascesa per i nostri prodotti, per la moda, per lo stile «made in Italy». Fu anche l’anno in cui i Nocs, corpo speciale della polizia, liberarono il generale della Nato Dozier con un’azione spettacolare, catturando i rapitori brigatisti senza sparare un solo colpo, ricevendo l’ammirazione degli americani e i complimenti personali del presidente

Reagan.

Insomma, abituati a essere accolti all’estero con l’epiteto di «mafiosi» o, dai più gentili, «maccaroni», ora gli italiani in viaggio, all’atto di declinare le proprie generalità, vedevano distendersi sul viso dei loro interlocutori (agenti doganali, portieri d’albergo, occasionali compagni di gita e quant’altro) il più ebete dei sorrisi per poi esplodere in «Ossì italia… ppaolorrossiii…».

Gli italiani stettero al gioco e, sarà anche buffo a dirsi, ebbero un’autentica ventata d’orgoglio nazionale per quel giocattolo che alla fin fine era una della poche cose a funzionare con certosina precisione in un paese talvolta sgangherato. A questo punto, su questa ventata di festoso nazionalismo sportivo e sulla svolta della stampa specializzata dopo i mondiali di Spagna, occorre spendere qualche parola in più.

Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.

Libro esaurito nelle librerie, presto sarà possibile scaricarlo gratuitamente da questo sito
Di |2020-09-11T15:16:15+01:0014 Giugno 2018|Storia e storie dello sport in Italia|

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