Silenzio buddismo e zen

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“Storia e pratica del silenzio” estratti dal paragrafo “Il mondo sotto Vuoto”

La formalizzazione della separazione tra buddhismo e linguaggio viene sancita dalla scuola logica di Dharmakirti e Dignaga con la teoria dell’apoha. Essi, ancora più radicalmente, non si limitano a negare alla parola l’idoneità a qualificare un oggetto reale, ma escludono che la sua funzione effettiva sia quella di riferirsi all’oggetto di cui si parla. Le parole verrebbero usate solamente per sancire quello che una cosa non è: quando dico “mucca” sto dividendo gli animali in “mucca” e “non mucca”, e sto limitandomi a dire che quella davanti è una “non mucca”. Dignaga asserisce esplicitamente che “una parola può esprimere il proprio significato solo ripudiando il significato opposto”. È sorprendente riscontrare in queste affermazioni un’anticipazione del linguista De Saussure che circa venti secoli dopo avrebbe chiarito, con il concetto di arbitrarietà sintagmatica, come “i significanti di un sistema di segni arbitrari non sono portatori di senso in sé ma solo per la loro capacità di differenziarsi, opporsi tra loro”.

Non meno aggressivi nei confronti del logos sono quei koan dove il maestro ripete ciò che aveva detto l’allievo rimproverato, pretendendo che in bocca a lui le medesime parole che erano state prova dell’inettitudine dell’altro facciano brillare la luce del satori. Fa-Yen, fondatore del ramo Hogen del buddhismo zen, chiese a uno dei suoi discepoli: “Come intendi questo detto: Un pollice di differenza, e la luna e il sole si separano?”. Il discepolo rispose: “Un pollice di differenza, e la luna e il sole si separano”. Il maestro la considerò insufficiente, e quando l’allievo gli chiese la sua versione disse: “Un pollice di differenza, e la luna e il sole si separano”. Vi sono altri episodi in cui il maestro picchia un allievo che gli ha risposto con una frase e, subito dopo, ne elogia un altro che ha usato lo stesso concetto e le stesse parole. La comprensione è assolutamente inadeguata a surrogare l’esperienza. In gioco nello zen c’è una sensibilità, non la spiegazione di quella sensibilità. Se le stesse frasi vengono pesate in modo così diverso la loro falsità e inutilità è palese. Tanto vale rimanere muti.

Di |2020-09-11T15:17:28+01:0026 Settembre 2019|Storia e pratica del silenzio|

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