La ricchezza dello sport. Superlega, tv e dintorni

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Chissà se Juventus-Milan sarebbe stata la partita di apertura della Superlega. Quel che è certo è che fu la prima partita in diretta alla televisione italiana, il 7 febbraio 1950, e si concluse 1-7. La crescente passione per lo sport indusse la Rai a varare, il 3 gennaio 1954, un contenitore di avvenimenti, una sorta di telegiornale dedicatovi esclusivamente, La domenica sportiva. Veniva trasmessa da un piccolo appartamento affittato a Milano da un facoltoso profumiere. Anche quando, qualche tempo dopo, la Rai poté permettersi il lusso di ospitarla in un ufficio interno, lo spazio non era ancora abbastanza capiente per la sala di montaggio, cosicché i 220 centimetri di pellicola (tanti ne bastavano per riprodurre un servizio di una partita di pallone) venivano portati in fretta e furia dall’edificio di fronte.

L’industria sportiva scoprì presto di essere l’unica a godere del vantaggio di farsi pubblicità in televisione senza spendere una lira, anzi ricavando introiti per la ripresa delle gare. Non si trattava però di un rapporto squilibrato a danno della televisione che, in coincidenza con la messa in onda di grandi avvenimenti atletici, cominciò la sua diffusione di massa.

In una prima fase le riprese riguardarono spazi interni e soprattutto piccoli, in particolare il ring di pugilato. Inizialmente gli eventi erano offerti con parsimonia: lo storico match per il titolo mondiale dei pesi medi, Benvenuti-Griffith, ancora nel 1967, venne mandato in differita il giorno dopo e non in diretta durante la notte per il timore che la veglia dinanzi allo schermo rendesse disattenti i lavoratori al mattino in fabbrica.

L’esplosione del fenomeno richiese il suo tempo. Nel 1971 il 62% degli spettatori dichiarava di apprezzare poco o niente la trasmissione di una gara sportiva e gli indici di gradimento la vedevano collocata dopo film, telegiornale, gioco a quiz, musica leggera, giallo a puntate, rivista, varietà, sceneggiato, commedia. Dal 1971 in poi, lo sport cominciò un’inarrestabile ascesa per effetto della quale nel 1988 fra i cento programmi più visti vi furono tredici partite di calcio e otto edizioni di Novantesimo minuto.

La crescita del consumo televisivo di sport, oltre che all’aumento dell’offerta provocato dallo sviluppo delle emittenti private e successivamente dalla tv satellitare, fu legata probabilmente all’evoluzione del mezzo nel modo di riprodurlo. In una prima fase, durata sino all’inizio degli anni settanta, la televisione si poneva come osservatore discreto e quasi timido, attenta a non disturbare, e la trasmissione era un surrogato, ovviamente imperfetto, rispetto alla partecipazione sul posto.

In una seconda fase la tv ha creato una visione tipicamente “televisiva” dell’avvenimento, compensando la lontananza del telespettatore dal luogo di gara con la moltiplicazione delle telecamere e quindi dei punti di osservazione (la ripresa di una corsa di formula uno, con i ripetuti cambi di inquadrature, è una sorta di automatico zapping) e una serie di accorgimenti tecnici, fruibili solo da chi segue la partita o la gara sulla sua poltrona di casa: il replay, il ralenti, le sovrapposizioni, la prospettiva del circuito dall’interno della vettura. Il più famoso di questi strumenti fu la moviola, che in qualche modo segna uno spartiacque, perché da abbellimento televisivo (e dunque sovrapposizione alla gara sportiva per lo spettatore a distanza) venne invocata come metodo di accertamento sul campo, raggiungendo solo pochi anni fa il traguardo con il Var. Tutto sommato è sorprendente che sia stato necessario tanto tempo, perché nel frattempo passavano nelle discipline sportive innovazioni o ritocchi che erano pensati a beneficio non della “verità” del risultato sportivo ma della sua pura estetizzazione dal punto di vista dello spettatore distanziato.

La terza fase è stata infatti la riregolamentazione dello sport in funzione delle esigenze di ripresa televisiva. Lo spazio “televisivo”, da alternativa accettabile ma pur sempre di seconda scelta rispetto alla visione dal vero dell’avvenimento, è diventato lo spazio naturale dello sport. Alcune modifiche di regolamenti, come il tie-break nel tennis e nella pallavolo o lo slalom parallelo nello sci, sono stati attuati con il pensiero rivolto allo spettatore e ancora più agli sponsor, i quali da una maggiore televisività delle gare possono garantirsi un’adeguata efficacia dei messaggi promozionali. La pallavolo arrivò a prevedere, per le partite trasmesse in diretta, che l’arbitro non potesse fischiare la ripresa del gioco sino a che la tv non avesse terminato la riproduzione rallentata di un’azione. A coronamento di questa nuova fase, dal 1996 scattò la pay-per-view in campo sportivo, con la quale ci si poté abbonare alle partite della squadra preferita (poi degli interi campionati) seguendole da casa.

Qui comincia la storia recente, ben nota a tutti gli appassionati di calcio. Una storia coerente con la terza fase che ho descritto, tanto da domandarsi se il suo sbocco naturale non fosse davvero la Superlega. Ecco quel che scrissi, nel 1999, ventidue anni fa, nel mio Storia e storie dello sport in Italia:

“Si realizzerà probabilmente quanto temevano alcuni, durante l’epoca pionieristica del piccolo schermo, e cioè che la possibilità di accedere allo spettacolo senza necessità di recarsi sul posto dove si svolge avrebbe svuotato gli stadi. Ma i presidenti dei grandi club calcistici si muovono nel senso di compensare la perdita lucrando adeguatamente sui diritti televisivi, che già attualmente costituiscono per loro una voce d’entrata superiore a quella degli incassi. Il passaggio successivo a quello dello spettatore che forma autonomamente il proprio palinsesto, scegliendo gli avvenimenti ai quali desidera assistere, potrebbe essere una programmazione degli incontri non più in base a un calendario agonistico steso secondo criteri di merito bensì secondo i gusti degli spettatori e della potenziale audience. Se dovesse prendere piede la realtà virtuale, diventerà persino inutile che gli incontri si giochino effettivamente, essendo sufficiente una simulazione”.

Rileggendolo mi è parso di essere stato profetico: in realtà il pubblico tradizionale (quello degli stadi) ha mostrato una certa resilienza, respingendo con veemenza il progetto della Superlega. Ma è tutto il pubblico televisivo occidentale che mostra di essere attaccato a una visione epica della narrazione sportiva (e specialmente calcistica) che comprende l’impresa, il sudore, la periferia, la commistione delle classi sociali, la sfida di campanile e l’ideale egualitario – tutto materiale storico verso il quale i “nuovi mercati” su cui puntava per fare cassa la Superlega sono più tiepidi. E ovviamente materiale che è già ampio soggetto di manipolazione, strategie retoriche e sottrazione fraudolenta. Ma il velo di ipocrisia, in qualsiasi campo, è pur sempre una parziale barriera di protezione.

Vorrei però ritornare sull’ultimo passaggio della mia citazione per collegarmi al più grosso svarione di Andrea Agnelli. Voglio prescindere da quelli ormai consegnati all’aneddotica, tipo rilasciare un’intervista appena prima di entrare nella riunione finale e dire che la Superlega si sarebbe fatta al cento per cento. Mi sembra più interessante dimenticare per un attimo l’inadeguatezza manageriale dimostrata dal personaggio, e prenderlo sul serio soffermandomi sulla dichiarazione ideologica più interessante: “il quaranta per cento dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni non segue più il calcio. Serve una competizione in grado di contrastare quello che loro riproducono sulle piattaforme digitali, trasformando il virtuale in reale. Attraverso Fifa crei la tua competizione, quella competizione va riportata nel mondo reale”. Tradotto: siamo noi che dobbiamo simulare la simulazione, e quella sarà la realtà che potremmo offrire a chi pratica la simulazione. Altro che Black Mirror! (e altro che Nba, che è stata tirata in causa come parallelo del tutto a sproposito). Oltre tutto non funziona: una volta che quella realtà l’hai svuotata del suo substrato valoriale non è più un modello attraente, e a un certo punto il ragazzo che gioca a Fifa (peraltro la maggior parte delle volte divertendosi a fare la sua “carriera” con il Leeds o il Sassuolo piuttosto che col Real Madrid) giustamente molla definitivamente quel gioco a favore di Fortnite.

Ma infine: chi deve considerarsi più fuori dalla realtà, il quattordicenne attaccato al videogioco o il quarantacinquenne imprenditore che accumula 400 milioni di debiti finanziari per pagare ingaggi assurdi ai giocatori? In fondo il vero problema strutturale della Superlega è che non era un golpe dei ricchi bensì dei poveri. Lo sport, come metodo di facile arricchimento aziendale, continua a dimostrarsi ostico, e forse è questa la prova della sua irriducibile diversità.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2021-05-14T13:34:46+01:0023 Aprile 2021|Limite di velocità|

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