Quando le carrozze dei treni avevano gli scompartimenti

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Sui binari nascevano amori, scherzi e solidarietà

Nelle ferrovie i cambiamenti tendono a essere impalpabili. Ad esempio, vent’anni fa per sapere in quale stazione ci si trovava bisognava abbassare per tempo il finestrino. “Stazioone di Firenze, stazioone di Firenze” (di solito lo dicevano due volte, come una duplice salva di cannone per salutare i forestieri del treno che era arrivato). Oggi i messaggi provengono dall’interno del treno, se è ad alta velocità. Se è velocissimo tende alla logorrea. Italo si distingue per l’impostazione attoriale dell’annunciatore, oltre che per il suo buon umore: il modello di ispirazione per l’annuncio potete trovare piatti caldi alla carrozza ristorante è “Il Mercante di Venezia”. Su Trenitalia, se si tratta di viaggi internazionali, fanno l’annuncio sia in romano che in inglese ma non si è mai certi di quale sia l’uno e quale sia l’altro.

La vera rivoluzione, però, è stato l’open space. Tiri la maniglia e ti si spalancano alla vista una quarantina di crani in fila. Una volta invece c’erano gli scompartimenti separati, da sei posti. Non erano necessariamente più comodi, anzi. Però creavano una piccola comunità. Che cercassero o meno di svicolare dalla questione, erano persone che stavano facendo il viaggio insieme.

Questo vuol dire, ad esempio, che se una signora di ottantasei anni ingaggiava un corpo a corpo contro la sua valigia tendente al tonnellaggio per issarlo sul portabagagli, c’era poco da fare: si doveva scattare come pizzicati sulle chiappe da un crostaceo acquatico e surrogarla nella peripezia. E nel pieno dello sforzo declinare nome/età/ destinazione/ scopo del viaggio, reclamati senza indugio dalla beneficiata come prova di riconoscente interessamento.

Sembra incredibile che lo stesso obbligo non venga avvertito oggi dal vicino di posto, che può tuttavia professare a sua difesa l’appartenenza a un nucleo indistinto di viaggiatori, la cui posizione teorica può essere espressa sincreticamente da una combinazione di nichilismo, evoluzionismo spenceriano, cervicale avanzata e volume della suoneria alta.

Il senso etico e comunitario dello scompartimento a sei posti conosceva diverse, pacifiche, convenzioni non scritte. Ad esempio:

  1. Si poteva chiedere al compagno di scompartimento che libro stesse leggendo e se era interessante, e poi interromperlo reiteratamente nella lettura.
  2. Il quotidiano di uno era di tutti (“Le spiace se do un occhiata?”. Alcuni lo restituivano malamente spiegazzato).
  3. Nei treni a lunga percorrenza provenienti dal meridione, finito il lento scartamento della frittata di maccheroni dalla sua carta oleosa, si domandava al compagno di viaggio se voleva favorire, sapendo che sussisteva un buon cinquanta per cento di possibilità che quello accettasse, specie se si era superata la quinta ora di trasferta.
  4. Quando un gruppo di amici giocava a scopone o a poker l’estraneo era autorizzato a seguire la partita e anche a sbirciare le carte di uno dei giocatori, al limite lasciandone trasparire il valore dalla sua espressione, e/o a contestare le scelte strategiche al termine della mano.
  5. Non costituiva violazione urbana poggiare i piedi sul sedile, neppure scalzi, in forza del tacito consenso sul fatto che non potesse essere peggio che poggiarci il culo.
  6. Entrare e uscire nervosamente dal vagone per guardare continuamente in piedi dal finestrino del corridoio era un chiaro indice di pericolosità sociale o un indice di profonda depressione. Seduti, era diverso. Si guardava il paesaggio, e si commentava. Anche solo “Quante case”. Oppure: “Il mare”.

Una grossa forma di maleducazione, invece, era di notte chiudere la luce nello scompartimento, tirare la tendina e stendersi occupando lo spazio di tre sedili per provare a dormire come a casa, salvo che da sotto il finestrino passava sempre lo spiffero e sotto la pelle marrone anni sessanta dei sedili l’imbottitura era cedevole. Poteva andar bene per un ora, due. Poi arrivava il momento in cui lo stridore della porta scorrevole raschiava l’aria. La tensione si tagliava col bisturi. L’occupante si fingeva morto, come un opossum o un serpente colubrido. A volte l’invasore cedeva, e richiudeva, i più miti persino con delicatezza, come un rimbocco di lenzuolo. Ma a un certo punto il giustiziere che sparava il neon centrale negli occhi arrivava.

Almeno per il viaggio di andata, per farci salire in pedana più freschi, la società sportiva finanziava le cuccette. Quel particolare affetto con cui le ricordavo mi spinse a utilizzarle anche quando potetti permettermi mezzi di trasporto più comodi e rapidi. Tra gli ultimi viaggi ne ricordo uno da Napoli a Bolzano. Ero in cuccetta da solo, e mi sollevai di scatto quando la porta, che pensavo di avere fermato con la chiave, si aprì con il rumore che il vecchiume delle cerniere imponeva. Un uomo rimase eretto e sorridente, e richiuse con un cenno di saluto. Al mattino appresi che tutti i bagagli nelle cuccette erano stati trafugati in treno, tranne il mio. Avrei dovuto saperlo io napoletano, leggendo le cronache criminali tristemente dense del Tirolo, che su quel tragitto c’era da stare in guardia.

La differenza fra la prima e la seconda classe in certi casi non era così evidente, la segnalava solo il fazzoletto appoggiato sul poggiatesta. Una notte con un mio amico incappammo in uno sciopero di sette ore. Ci riparammo per stenderci a dormire in una carrozza di prima, visto che la seconda era piena e la prima completamente vuota. Il controllore (che evidentemente non aderiva allo sciopero), mentre il treno era fermo nella campagna, ci intimò di ritornare nella seconda che ci competeva. Iniziò una lite furibonda: noi eccepivamo che non faceva nessuna differenza visto che non stavamo viaggiando, non avevamo pagato per dormire in seconda classe. Era difficile però che la si spuntasse con un controllore. Avevano una fama sinistra, un’autorità indiscutibile e però dai confini giuridici vaporosi. Nessuno avrebbe potuto prevedere che nel XXI secolo sarebbero finiti pestati dal primo balordo.

Quando era giorno, tuttavia, suscitava effettivamente molto scandalo nella comunità di un vagone da sei posti di prima classe che il controllore pescasse qualcuno che si era infiltrato con il biglietto di seconda classe.

I passeggeri di prima classe di solito erano meno ciarlieri dei passeggeri di seconda classe, e anche meno solidali. Quando il controllore allontanava il clandestino della seconda classe si limitavano a rimbalzare tra loro gli sguardi intendendo: “L’avevo capito subito che quello non aveva il biglietto di prima”.

Poi li riabbassavano. Se era una carrozza fumatori qualcuno accendeva la sigaretta.

Le leggende dicono che il fumo delle sigarette in prima classe non spargesse cenere; e che lo spegnimento della luce al momento di dormire non c’era bisogno di proporlo. Accadeva per telepatia.

Se nella carrozza c’era un deputato, il viaggiatore di prima classe rientrava a casa e mentre ancora strofinava le scarpe sullo zerbino raccontava: “Ho viaggiato con un onorevole”.

Pochissime erano le destinazioni raggiungibili senza cambiare almeno una volta. La consultazione dell’orario ferroviario, per una pianificazione razionale, rappresentava una vera specialità, con tanto di editore di riferimento, il mitico Pozzi, ad uscita semestrale in edicola. Fui valente stratega, designato da altri per studiare la matematica delle coincidenze. Solo talvolta barai, scegliendo il percorso che consentiva di indugiare qualche minuto in più in una stazione secondaria, perché le panche disadorne, gli orologi a muro condannati professionalmente all’esattezza, le poche rotaie, il transito muto e pensoso dei passeggeri in attesa e il capostazione che è capo solo di se stesso mi parevano, e così ancora li ricordo, rari concentrati di poesia.

In gioventù ho accumulato più ore di treno che di studio. Ero schermitore agonista, e dunque facevo parte del popolo delle credenziali. Si trattava di un foglio rosa, diviso in quattro facciate, che attestava l’iscrizione a una federazione sportiva e assicurava in ragione di ciò uno sconto di circa il trenta per cento sul biglietto ferroviario.

Accadeva però che gli statuti federali – almeno quello della scherma – prevedessero che una società sportiva potesse considerarsi legittimamente costituita se aveva anche un solo atleta che aveva partecipato alle manifestazioni ufficiali, purché ne avesse tesserati altre nove. Siccome le strutture di governo sportivo venivano elette dalle società, ecco che in alcune regioni presero a proliferare queste società con un solo atleta. Trovare gli altri nove non era difficile, offrendo come contropartita la ghiottoneria dello sconto sui treni. Anzi, a un certo punto mezza Italia era invischiata con le credenziali del Coni. Ciononostante, quando il controllore passava, prima di vidimare il biglietto a tariffa ridotta, chiedeva con voce sospettosa: “Ha le credenziali?” espressione che a quell’altra metà di Italia che non le aveva odorava di cospirazione.

Nella trasferta agonistica occupare, tutti i compagni di una squadra, lo scompartimento intero da sei – o due addirittura! – equivaleva alla conquista di un fortino. Un momento cruciale del viaggio in gruppo era, quando al momento di una sosta di pochi minuti, qualcuno si candidava all’impresa di andare a comprare le bevande e i panini (oppure di cercare una cabina per telefonare). Ce l’avrebbe fatta a risalire in tempo prima del fischio del capotreno?

Della passione per gli scherzi (e di mio padre più in generale), che fu maestro di scherma, ho già scritto qui. Una volta si candidò egli stesso al blitz, insieme all’allievo Bruno Amalfitano, che poi sarebbe divenuto un eccellente scenografo del cinema. I ragazzi che lo attendevano presero a preoccuparsi, l’orario di partenza era imminente. In realtà mio padre e Amalfitano erano già risaliti sulla carrozza vicina. Così accostarono la bocca alla parete che divideva le carrozze e con voce fievole cominciarono a pronunciare il nome del più emotivo tra quelli che erano rimasti sul treno.

“Geennaarooo” scandivano soavemente, come se si trattasse dell’eco da un luogo lontano e astrale.

“Maestrooo!” rispose Gennaro tirando giù il finestrino e guardando verso il principio del binario, convinto che ci fosse qualche speranza ancora di vederli rimontare il treno da quel sito nascosto alla vista.

“Geennaroooo”

“Maestroooo”.

E lo scambio continuò struggente, con il treno ormai in movimento inesorabile verso la meta, fino a quando Bruno non prolungò esageratamente la o finale, rendendo l’appello indistinguibile dal congedo di uno spettro, e Gennaro si fiondò nella carrozza a fianco rivelando l’inganno scenico della parete.

Ogni tanto qualcuno abbandonava la comitiva, non tanto per sgranchirsi ma per esplorare antropologicamente il treno, e se eravamo – nelle trasferte quasi sempre lo eravamo – solo maschi per ricercare un’anima gemella. Una volta ne trovai una, e senza mischiare la nostra rapida e platonica intimità con chicchessia in una carrozza, ci raccontammo a lato del predellino vita e progetti in otto ore di fluire fusionale, e senza confessarlo ci passò nella mente di farli convergere. Poi lei giunse alla stazione sua, e nemmeno ci rimase il rispettivo numero di telefono di casa, poiché la purezza romantica del viaggio ferroviario esigeva la scelta immediata di cambiare destinazione oppure la castità e l’oblio (benché non pochi fanfaronassero di avere consumato avventure fulminee nella toilette).

Un’altra volta, un po’ più in là negli anni, percorsi sopra i binari il principio d’innamoramento con una fidanzata che si trovò chiamata a due compiti paralleli: mostrare a me, rannicchiato e fintamente addormentato sotto un cappotto, con quale elettrica intensità ricambiasse; e intrattenere una coppia di anziani che compiva uno degli ultimi viaggi di un’esistenza e aveva desiderio di riassumerla a chiunque un giorno avrebbe potuto testimoniarla. Nell’alternarsi del cambio di luce fummo tutti e quattro alba e tramonto sottilmente intrecciati sopra la culla delle rotaie.

Photo credit immagine in evidenza: Antonio Ranesi CC BY-NC-SA 3.0

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2021-10-01T16:58:09+01:0024 Gennaio 2020|Lo Storiopata|

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