RECENSIONE LA VOCE DI HIND RAJAB

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La trama di questo film, come ormai sanno più o meno tutti, è semplice, lineare e si riferisce a un fatto realmente accaduto: a Gaza, una bambina di sei anni rimane inizialmente illesa dalle cannonate (355 colpi) che hanno ucciso gli altri cinque passeggeri. Le è rimasto il telefono, grazie al quale gli operatori palestinesi della Mezzaluna Rossa che ricevono le segnalazioni restano in comunicazione costante con lei, incoraggiandola. L’autoambulanza che la potrebbe trarre in salvo dista solo otto minuti, però attivare le autorizzazioni che le consentirebbe di raggiungere il luogo senza essere disintegrata a sua volta richiede una procedura più lunga che cambiare il motore del veicolo. Per come va a finire (male, naturalmente, e anzi peggio ancora di quel che si può immaginare) tanto valeva che partisse subito sgommando, tanto tutto si sarebbe concluso allo stesso modo.

Quel che ha reso il film particolare e dibattuto è che di una parte dell’accaduto è riportato il reperto reale dentro la pellicola: la registrazione della telefonata, dunque la voce della bambina. Vera è la voce che ascoltiamo, vera l’immagine dell’app di riproduzione e del tracciamento vocale sullo schermo scuro, veri i picchi di frequenza che raffigurano i momenti di parlato – ad esempio “sono morti”, detto dalla bambina la quale, con il carro armato che continua a costeggiare i resti dell’auto, ha infine dismesso la narrazione di conforto con cui si proteggeva, e cioè che i sei (due zii e quattro cugini) stessero dormendo. In scena, oltre alla telefonata, viene messa nulla più che l’ufficio dei soccorritori: la disperata impotenza; i conflitti che scoppiano all’interno fra chi vuole che l’ambulanza venga inviata senza indugio fottendosene dei protocolli e di chi rivendica la necessità di mantenere la calma e non far ammazzare i paramedici; le ritualità (affissioni sul muro dei volti delle vittime, disegni sul vetro di simboli rappresentanti lo scorrere del tempo), il ricompattamento solidale nei piccoli gesti.

La regista tunisina Kawtar ibn Haniyya avrebbe tutto il diritto di rendere la sua opera politica nel senso stretto e militante del termine. Eppure, benché sia indubitabile che la responsabilità degli eventi narrati ricada su Israele, non è su questo che calca la mano: gli israeliani rimangono uno sfondo quasi innominato, una divinità che ha il potere di togliere e rendere la vita, e però tutta la catena che si crea intorno alle negoziazioni con una miriade di intermediari mette in luce una rete di omissioni, pavidità o irruenze che chiamano in causa il ruolo di enti e persone fisiche che hanno comunque il potere di indirizzare gli eventi e invece si lasciano risucchiare in un mortifero burocratismo.

Il film è molto onesto e misurato. Che il peso della questione Gaza abbia inciso sul premio del Leone d’argento è plausibile, ma non è disdicevole che fuori dal premio principale i festival cinematografici mettano in conto anche la coscienza civile. Peraltro “La voce di Hind Rajab” ha tecnicamente i suoi pregi: provate a isolare di volta in volta le scelte di sfuocato intorno o dietro al soggetto principale e vi renderete conto che meriterebbero un’analisi estetica a sé. I movimenti liberi di camera sono più scontati ma non altrettanto lo sfaldamento delle regole di campo e controcampo. E sopra tutto, la voce autentica non è catturata come espediente di attenzione: è il perno e la ragione della scena tutta, chiamata lei ad adattarsi e quando è il caso spogliarsi. In una sequenza, uno dei protagonisti propone di far sentire la voce ai funzionari delle agenzie che cincischiano: capirai! esplode l’altro, la gente posta ogni minuto in video i cadaveri sulle strade! La sceneggiatura sbandiera qui un’intelligente frizione, stante che lo stesso film che stiamo vedendo riprende l’audio che era circolato in rete. La questione della pornografia delle immagini, a seconda del loro uso, non viene quindi schivata. Del tutto immotivata è dunque la critica di speculazione formulata da una nota critica cinematografica (“l’uso delle registrazioni originali: mossa discutibile ma di sicuro effetto”), della quale ora vado a parlare.

Preciso che si tratta della prima e, suppongo, dell’ultima volta che commento un’altrui recensione riguardante un film del quale scrivo, ma sento di non potermene esimere. Mariarosa Mancuso, nella legittima stroncatura del film su Il Foglio, ha tracimato molto oltre il giudizio cinematografico ed è stata sommersa da un’ondata di odio in Rete, che ha poi lamentato e riassunto, con alti lai, in un successivo articolo: personalmente aborro queste forme virulente di aggressione verbale ma se, grosso modo, stai giustificando le bombe su Gaza ( “nessuno ha ricordato la carneficina del 7 ottobre al rave per opera di Hamas”) non dovresti farne una tragedia se a te, invece delle bombe, piovono addosso degli insulti. Per inciso, io (non ebreo) sono fra quelli che il 7 ottobre hanno pianto: però proprio non capisco cosa c’entri il mancato richiamo del 7 ottobre nella recensione del film, e cosa punti a dimostrare. Il film non fa menzione alcuna del contesto: per assurdo, la regista potrebbe pensare che gli israeliani hanno tutte le ragioni del mondo, e starsi tuttavia focalizzando sull’assurdità di una specifica situazione. E poi, l’articolo non stava giusto teorizzando che non si deve misurare un film sulla base del suo valore politico? Ma fossero tutti questi i problemi! Riducendo al confronto la buonanima di Oriana Fallaci alla stregua del capo di Al Qaida, Mancuso inorridisce alla presenza sullo schermo di una foto della bambina vestita della festa con coroncina. “E giù singhiozzi, senza pensare che di lì a qualche anno le avrebbero imposto di non mostrare neppure una ciocca di capelli”. Cioè, come se in un film di Ken Loach venisse mostrato un operaio cui un macchinario ha troncato di netto le braccia e noi dovessimo restare indifferenti perché tanto un giorno sarebbe andato in pensione. Come si vede, quand’anche fosse pertinente al caso, la strategia di indurre la commozione non riesce mai fino in fondo: sempre ci sarà gente che percepirà empaticamente l’intensità del dolore solo se si trova in macchina, al posto della bambina. O se qualcuno la chiama stronza.

La voce di Hind Rajab
Tre soli

Di |2025-10-03T16:35:42+01:003 Ottobre 2025|2, Il Nuovo Giudizio Universale|

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